di Romano Bartoloni
Il braccio di ferro governo-opposizione sul controllo della Rai, le tensioni sul conflitto di interessi televisivi di Berlusconi, lo scontro ai ferri corti tra impresa e sindacato sulle mutazioni del pianeta lavoro, non solo hanno provocato un terremoto nei territori della politica e dell’economia, ma hanno scoperto gli altarini del sistema della comunicazione e quanto sia diventato nudo il cosiddetto quarto potere. In un clima di resa dei conti, troppe ipocrite cassandre si stracciano le vesti sullo stato di salute dell’informazione dopo aver ignorato il grido di dolore lanciato dagli addetti ai lavori: dagli editori impaludati nelle trappole del multimediale ai giornalisti in crisi di identità e sacrificati agli idoli della pubblicità e della notizia-spettacolo. Gli ultimi assalti alla diligenza hanno sporcato ogni cosa e hanno esposto le istituzioni, dal Capo dello Stato in giù, alle figuracce. Pur tuttavia, i moniti di Ciampi sulla libertà e il pluralismo dell’informazione potrebbero invogliare piccoli e grandi burattinai a guardarsi allo specchio e a cominciare a battersi il petto.
Oggi troppa gente si impiastra le mani con la marmellata della comunicazione. I monopoli e gli oligopoli del potere e la forza tecnologica dell’autarchia informatica soffocano, manipolano e virtualizzano la realtà dei fatti. E il girotondo del Palazzo non incanta nemmeno i bambini. Politici. magistrati, potentati economici, e persino bottegai, fanno a gara nel propagare, meglio propagandare, un’informazione se non falsa sicuramente tendenziosa. E i giornalisti, e i cronisti? Molti valorosi colleghi sono costretti ad arrampicarsi sugli specchi del gran vociare, e a spremere fino in fondo le risorse della propria esperienza e della propria professionalità per strappare mezze-notizie e brandelli di verità, per raccogliere e interpretare il raccoglibile dai tam-tam delle conferenze-stampa e dalla ridda di dichiarazioni e controdichiarazioni, smentite e contro smentite. La maggioranza dei cosiddetti operatori dell’informazione è costretta ad attaccare la penna e il computer laddove vuole il padrone e,quindi, volenti o nolenti, subiscono il ricatto della deregulation professionale e occupazionale, e debbono prestarsi al gioco anche a costo di fare la figura dell’utile idiota. Se, poi, c’è qualche grillo parlante, stai certo che ambisce a conquistarsi il posto al sole nel campo del potere.
Il giornalismo di prima linea o mezzobusto in tv conserva ancora qualcosa dell’antico fascino, tuttavia ha perso molte delle penne del pavone di una volta. I Vespa e i Biagi assomigliano sempre più agli showman alla Baudo e alla Carrà piuttosto che ai colleghi alla De Bortoli e alla Mauro, avendo voltato le spalle, peraltro, ai modelli e ai modesti contratti di categoria. Mentre le inchieste sui veleni tossici o sulle truffe dei maghi sono lasciate alle Iene oppure ai comici di Striscia la notizia o ai Gabibbo.
Nel mondo di Internet si è creato persino un giornale telematico, “Il barbiere della sera” per scrivere peste e corna del mestiere e per spettegolare su divi e comparse del giornalismo. Insoddisfatto dei resoconti televisivi sull’ultimo rapporto dell’Eurispes sulla società italiana, il presidente Gian Maria Fara ha sparato, via etere, un siluro contro la categoria, giudicando i giornalisti “superficiali, sciatti, ignoranti, arroganti e faziosi”, ma anche una bordata contro i mass-media, diventati, a suo giudizio “tanto autoreferenziali da poter fare a meno anche della realtà che invece dovrebbero descrivere”. Singolare è anche l’autocritica del giornalismo americano attraverso le rivelazioni di Denis Redmont, direttore per l’Europa dell’agenzia Associated press. Pare che, durante la guerra in Afghanistan, l’opinione pubblica statunitense pendesse dalla bocca dei militari, non fidandosi della stampa che pure aveva vissuto la sua grande ora ai tempi del Vietnam. Un atteggiamento che riflette una caduta di credibilità che evidentemente non è soltanto di casa nostra.
Forse troppa acqua sporca è passata sotto i ponti del mestiere di giornalista, compromettendo, con la qualità del prodotto, la stabilità delle vecchie e robuste arcate. Lo stato di malessere non è causato soltanto da una rivoluzione copernicana che ha moltiplicato e inflazionato le figure dei comunicatori; ma anche dall’estrema debolezza contrattuale. Il giornalista non è più garantito nel posto di lavoro e contro le intemperie economiche e sociali. Non è più radicato vita naturaldurando nell’azienda e con davanti una carriera assicurata: Non è più con le spalle coperte contro le querele e le richieste di risarcimento danni (che raggiungono le centinaia di miliardi), né più tutelato nell’autonomia di giudizio e di critica. Il nuovo contratto di lavoro caratterizza la stagione del giornalista atipico e sinergico, avendo colto il vento del clima politico ed economico sensibile al soffio della flessibilità e del ridimensionamento dello Stato sociale. Si prospetta un avvenire di libera professione allo sbaraglio, di sempre più free- lance, come peraltro è la fotografia di altri Paesi che, per la verità, hanno sempre guardato con invidia ai nostri patti sindacali. Contratti a termine con criteri indiscriminati; ingresso contra legem del lavoro in affitto in un’attività intellettuale; mano libera dell’azienda nelle redazioni legando i giornalisti a più tavoli nei mass-media multimediali (giornali, radio, tv, internet) e nelle imprese con testate anche ad indirizzo editoriale diverso; mansioni e incarichi revocabili nel tempo; retrocessione in serie b del giornalista online (sottopagato); certificazione della precarietà per il free-lance; codice di disciplina come arma di ricatto aziendale.
Per la Federazione della stampa, il sindacato dei giornalisti, addirittura il governo starebbe gettando altra benzina sul fuoco con il ddl-delega sul lavoro (la questione della mano libera sui licenziamenti e dintorni), una svolta epocale al centro della sollevazione di scudi da parte di Cgil, Cisl e Uil. Il segretario della Fnsi, Paolo Serventi Longhi, incarna la crisi del futuro nell’avvento del “giornalista sempre più precario, più debole e ricattabile, facile strumento nelle mani di editori senza scrupoli e di direttori compiacenti”. Nei sindacalisti è insinuato il timore che le proposte di Berlusconi e di Maroni accendino il disco verde ai service (pagine di giornali affidate alla confezione esterna) cancellando le redazioni; aboliscano le garanzie del posto di lavoro nell’eventualità di cessione di fette d’azienda (come già nel caso di Italia radio del gruppo Repubblica-Espresso); obblighino fior di giornalisti a passare al lavoro part time; introducano forme di caporalato anche nei mass-media; moltiplichino i licenziamenti senza giusta causa; aprano le porte all’arbitrato nelle vertenze, senza appello e sotratto al giudizio della magistratura.
Se il peggio pronosticato dalla Fnsi è ancora di là da venire, nelle grandi centrali dell’informazione, RCS periodici (Corriere della Sera ecc.), Mondadori, Mediaset, Ansa, Gruppo Rifesser (Giorno, la Nazione, il Resto del Carlino), il Messaggero, Secolo XIX, cresce la tensione nei rapporti tra gli editori e le redazioni. Il rinnovo del contratto ha lasciato l’amaro in bocca, e molti si erano illusi di poter recuperare il terreno perduto con il “fai da te” dei patti integrativi. Sorpresa delle sorprese, il giornalismo delle grandi testate, finora in una botte di ferro, rischia di perdere quattrini, garanzie e privilegi aziendali conquistati in decenni di lotte sindacali ( al Messaggero i redattori mettevano bocca sugli avanzamenti di carriera, al Corriere della Sera i vuoti redazionali sono colmati dai precari) e di finire appiattito e mortificato in mezzo alle nuove leve senza arte né parte, e soprattutto malpagate.
In un Paese dove non esistono gli editori puri, dove si vende lo stesso numero di copie del 1938 (sei milioni), dove il peso degli eventi è regolato dagli umori delle tv e condizionato dalle forze della pubblicità e dello spettacolo, e dove i poteri economici e politici fanno il bello e cattivo tempo nell’universo della comunicazione, quanto contano ancora la realtà dei fatti, la qualità della notizia e la voce della critica? Le veline, i comunicati e le penne dei passacarte non cambieranno certamente il mondo in meglio.