di Romano BartoloniSalvo i ricordi della parentesi degli esami, l’Ordine appare agli occhi della maggioranza dei colleghi come un oggetto misterioso, tanto che gli stessi giornali ne confondono incarichi e funzioni con la FNSI. Chi è, chi lo rappresenta, cosa è oggi? E’ la navicella che naviga a vista con le armi spuntate e obsolete delle regole deontologiche nelle tempeste di calciopoli, spiopoli ecc. e che affonda contro gli scogli disseminati dal Palazzo su segreto professionale, diffamazione, intercettazioni, querele facili ecc. per stringere la vite della libera informazione? Oppure l’ultimo baluardo di un’istituzione anacronistica e aliena in Europa e che sopravvive in attesa di una riforma che probabilmente nell’Italia delle corporazioni intoccabili non arriverà mai? O è il pletorico consiglio nazionale dell’ODG, oltre 120 membri che contano meno del due di coppe e che vengono eletti dai soliti quattro gatti (votano meno del 6% dei 90mila iscritti!)? Oppure il sistema di esami di abilitazione alla professione che impone ai candidati la macchina per scrivere introvabile persino nei musei? Secondo il recente dossier/e-book sul come cambia il mestiere curato dal collega Ugo dell’Innocenti, nel solo quinquennio 2001/2005 in 5.350 hanno superato gli esami ingrossando le fila dei professionisti. Nello stesso periodo, meno della metà sono stati i nuovi contratti a tempo pieno e indeterminato rilevati dall’INPGI. Nonostante il mercato del lavoro sia saturo e stravolto dalla “tsunami” del precariato, proliferano le scuole di giornalismo riconosciute dall’Ordine, salite a ben 19 (ogni ODG regionale rivendica un posto al sole) e che sono in grado di sfornare ogni biennio 600 praticanti dal destino incerto. E intanto crescono a misura esponenziale i giornalisti disoccupati degli elenchi FNSI/FIEG, 2.653. Ordine sì, Ordine no, riformarlo o cancellarlo è nei fatti un falso problema. In ballo c’è ben altro! In realtà, il rischio è l’abrogazione dell’informazione, la morte del giornalismo d’autore, la fine della notizia di cronaca colta dal vivo, l’abdicazione dall’autonomia di giudizio, il silenzio e il black-out della critica al potere nell’epoca della comunicazione elettronica senza argini e senza frontiere, e mentre impazza la moda dell’opinionismo saccente e cattedratico dei professori, e dilagano le interviste confezionate a misura degli intervistati. Non soltanto la legge istitutiva non sta più in piedi, come ha sostenuto il segretario della FNSI, Paolo Serventi Longhi, durante la calda estate delle polemiche dentro e fuori casa nostra sul futuro dell’Ordine, ma l’intera organizzazione sia al centro sia in periferia, paralizzata dalla funzione burocratica, si chiude a riccio nella difesa di una realtà che non esiste più, o che semmai vegeta a stento in qualche grande testata. Come si fa a rimanere ciechi e sordi di fronte allo smantellamento pietra su pietra del contratto (peraltro, senza rinnovo da 600 giorni!) che sconvolge la vita delle redazioni, mortifica il lavoro, trasforma tanti colleghi in robot al desk o in passacarte di comunicati e veline? Da una parte gli editori trasformano i mass-media in veicoli di pubblicità e di comunicazione asservita al carro degli interessi consolidati, snaturando la fisionomia dell’informazione e stringendo di fatto un patto di non aggressione con il sistema dei poteri. Dall’altra, subiscono gli effetti devastanti della persuasione occulta condotta dal Palazzo mediante un uso cinico e strumentale della moderna potenza della tecnologie. In barba ai principi della neutralità, dell’imparzialità e della trasparenza, il processo di normalizzazione si realizza attraverso una distribuzione capillare nelle redazioni e nei pc dei giornalisti di una pappa precotta (comunicati, dvd, videogiornali preconfezionati ecc.), assorbita e rilanciata così come la pensano i padroni del vapore. Che non siano fantasie di cassandre o di mestatori di zizzania, lo assicura un autorevole editorialista di “Repubblica” (10 settembre us in prima pagina), Ilvo Diamanti, che denuncia l’afonia dei cani da guardia a palazzo Chigi con il ridimensionamento dei servizi giornalistici da parte degli editori. Da quando Berlusconi dominava la scena imponendo la propria immagine e il messaggio politico confezionati da imprese private specializzate, giornalisti e inviati sono quasi scomparsi da piazza Colonna. Né sono stati rimpiazzati dopo il cambio della guardia fra lo stupore di Prodi e del suo staff che, in fatto di comunicazione, viaggiano anni luci dietro il cavaliere. Un fenomeno analogo di svendita dell’informazione si sta verificando nelle Regioni di maggior peso e prestigio, come il Lazio e la Lombardia, dove amministratori e uffici stampa scoraggiano con ogni mezzo le iniziative dei pochissimi cronisti ancora in caccia di notizie (il grido d’allarme viene da Lorenzo Grassi dell’agenzia Dire e da Rosi Brandi, vicepresidente dei cronisti lombardi) e fanno il bello e cattivo tempo nei notiziari prodotti senza cambiare una virgola. Con il risultato che l’informazione regionale viene affidata a un collaboratore (ANSA Roma). L’Ordine assiste impotente alla mutazione genetica della professione e aspetta e spera, ormai da tempi immemorabili, che piova dal cielo la benedetta riforma della legge del 1963. Nell’attesa di segnali di là da venire e mentre il governo decreta di imbavagliare la stampa invece di colpire intercettatori e gole profonde, gli abolizionisti radicali alla Capezzone si inventano la liberticida tutela sul lavoro dei giornalisti da parte dell’Autorità per le garanzie nella comunicazione. Sarebbe cadere dalla padella nella brace se l’Albo dei giornalisti finisse sotto le forche caudine dei poteri dello Stato o delle loro lunghe mani. Cancellare l’anomalia dell’Ordine non sarebbe il peggiore dei mali, purchè l’Albo rimanga affidato alle organizzazioni della categoria, come avviene in quasi tutti i Paesi e come lo era da noi quando divenne una conquista sindacale con il contratto del 1925. Proprio oggi che gli editori considerano il contratto carta straccia, l’Albo nella custodia della FNSI potrebbe diventare quell’arma in più per rianimare la categoria e per fermare la corsa al massacro del giornalismo doc.