Debiti miliardari per Atac, Ama e sorelle
I conti non torneranno mai in Campidoglio (13 miliardi di debiti che ci costano un mutuo di 600milioni l’anno) senza recidere alle radici la principale causa storica del disastro finanziario: il carrozzone delle cosiddette società partecipate con debiti complessivi per 2,8 miliardi di euro, e con Atac e Ama in fondo nel baratro. Troppo blanda la cura proposta, in questi giorni, dalla Giunta Raggi che spunterebbe briciole di risparmi per 90milioni, lasciando praticamente le cose come stanno. Forse qualcuna delle partecipate di minor peso ne uscirà con le ossa rotte, ma non saranno cancellate né eliminate, né tagliate, né rottamate, insomma, di fatto, non chiuderanno bottega.
In cima ai pensieri della Sindaca fin dalla campagna elettorale e da quando si è insediata, alla fin fine l’operazione annunciata a caratteri cubitali si sta rivelando deludente. La montagna ha partorito il topolino del “riordino, riassetto, riorganizzazione, accorpamenti, integrazioni, alleanze sinergiche”, comunque con cessioni e liquidazioni camuffate, e senza mandare a casa nessuno dei 37 mila dipendenti in base a un’intesa raggiunta con i sindacati. Non saranno toccati né posti di lavoro né retribuzioni, “perché la riorganizzazione delle società – si assicura in un comunicato capitolino del 2 ottobre scorso – non comporterà esuberi di personale e sarà garantito il rispetto dei livelli salariali derivanti dal contratto salariale e dagli integrativi”. Tanto è risaputo che, anche se ci fossero, gli eventuali esuberi non potrebbero emigrare automaticamente fra i capitolini doc ridotti a 23mila dopo anni di giro di vite fra prepensionamenti e cassa integrazione.
Nel presentare il “piano di razionalizzazione” della sua Giunta, la Sindaca Virginia Raggi ha messo sotto accusa un passato di affarismo clientelare contestando l’esistenza di “una galassia di partecipate di primo e secondo livello, la cui attività, nella maggioranza dei casi, non era correlata allo svolgimento delle funzioni istituzionali dell’Amministrazione. Aziende che in passato venivano usate più che altro come strumenti per consolidare il consenso, per moltiplicare poltrone e clientele”. Alla prova dei fatti, il piano più atteso del suo programma si propone come un’ indolore operazione trasformistica, anche se decantato buon “frutto del lavoro congiunto dell’assessorato alla riorganizzazione delle partecipate, del Dipartimento partecipazioni, del gruppo di lavoro appositamente istituito e degli altri assessorati competenti”. Un piano che si assicura erede del progetto comunale “Salva Roma” del 2014, reiterato nel 2015, e allora previsto con vistose cure dimagranti, nonché in sintonia con la legge Madia che vieta, però, la sopravvivenza alle società in perdita.
Dopo tante promesse e proclami, il risultato raggiunto è insignificante, rimane assai lontano dagli scopi prefissi di rimuovere una palla al piede dell’amministrazione cittadina. Nella sostanza, prevede una riduzione delle società partecipate (quelle valutate!) da 31 a 11 con un risparmio di 90milioni. Briciole, un’inezia anche solo davanti il buco nero dell’Atac che raggiunge 1,3miliardi. Diversamente dalla sua “successora”, il tanto bistrattato Sindaco Marino era entrato nell’ordine delle idee di cominciare a fare sul serio, chiudendo baracca e burattini. Nel suo sito personale, ricorda di averci provato con delibera del marzo 2015 nell’intento di liberarsi di società strategiche come Centrale del Latte, ente Eur, Assicurazioni con una previsione di risparmio iniziale di 150 milioni. A conferma delle sue buone intenzioni, prometteva che il Comune sarebbe tornato a fare il Comune, perché l’amministrazione pubblica “non deve vendere fiori, macellare carne, distribuire farmaci, occuparsi di assicurazioni e di società immobiliari”. Viceversa, la voce ufficiale, e mai smentita, del web capitolino, continua a spiegare imperturbata che Roma capitale ha mano libera in tutti i campi della città, partecipando “direttamente o indirettamente ad una pluralità di società e di altri organismi che costituiscono il cosiddetto Gruppo Roma capitale.” E ancora: “Tali strutture operano prevalentemente nei comparti dei servizi pubblici in materia di risorse idriche ed energetiche, di igiene urbana e di gestione del ciclo dei rifiuti, di mobilità e di trasporti” e inoltre “nei settori dell’ingegneria e dello sviluppo territoriale, della strumentazione e gestione delle infrastrutture, dei tributi locali, della cultura, dell’assistenza socio-sanitaria e dei servizi assicurativi”.
Nei fatti, i tentacoli del “Gruppo Roma capitale” esautorano l’amministrazione capitolina di poteri e funzioni istituzionali affidati per legge. Un esempio per tutti? Ridotti a quattro comparse i gloriosi giardinieri comunali, i parchi pubblici, abbandonati all’incuria, sono diventati giungle impraticabili e a rischio stupri, con piante inselvatichite, con fioriere distrutte, e con invasioni di mosche e zanzare.
Nell’elenco del portale capitolino intruppate sotto l’etichetta ufficiale “Gruppo Roma capitale” figurano attualmente 38 organismi (31 società, 5 fondazioni e 2 istituzioni). Ai quali si affiancano, nel portafoglio dell’azionista comunale, una nebulosa di controllate, enti, istituzioni, spa, in house, multi utility, consorzi ecc, in totale 140 secondo un’inchiesta del giornalista Sergio Rizzo. Allo stato dell’arte, tante resistenze ed incertezze sembrano scoraggiare l’impresa di riabilitazione e di riscatto di un Comune che, da decenni, ha scaricato nelle mani di terzi i propri compiti: servizi, lavori, opere pubbliche, una volta assolti e realizzati in forma diretta e oggi polverizzati extra moenia. L’andazzo è cominciato nel 1993 cavalcando la grande occasione offerta ai Comuni con la legge sull’elezione diretta del Sindaco (allora Francesco Rutelli), e sulla maggiore autonomia finanziaria delle amministrazioni territoriali. 24 anni fa, le municipalizzate romane erano quattro: Atac, Stefer ( trasporti regionali), Acea (acqua e luce) e Centrale del Latte.
In questo quarto di secolo, poteri e sottopoteri, caste gerarchiche e burocratiche sono proliferati all’ombra della pubblica amministrazione, fertilizzando il terreno per le incursioni disoneste. Risultato: pascoli aperti per gli imbroglioni, porte spalancate a mafia capitale, collasso finanziario dell’ente locale, degrado e declino della città. (13/10/2017)