di Carlo Felice Corsetti
La Riforma: dietro le “linee guida” la tentazione di estinguere i pubblicisti
Non ci sono ancora certezze sulla morte di Viktoria Marinova, la giornalista aggredita e uccisa nei giorni scorsi alla periferia di Russe, nel nord della Bulgaria. Si crede che sia stata aggredita per circostanze casuali e che non avrebbero a che fare con il suo lavoro. Si crede, ma non si sa. Non ci sono dubbi invece sulle cause della morte, un anno fa, della giornalista e blogger maltese Daphne Caruana Galizia.
Una bomba fece esplodere la sua auto mentre lei era a bordo, a Bidnija, nell’isola di Malta. Daphne Caruana Galizia stava indagando su fatti di corruzione, era una “cronista scomoda”, ed è inevitabile pensare che sia stata uccisa a causa della sua inchiesta. In Ungheria è lo Stato a fare la guerra ai giornalisti, con nuove leggi e limitazioni.
Fuori dall’Europa, l’omicidio del giornalista di Riad Jamal Khashoggi, inviso dal regime del suo Paese, e che si sospetta sia stato ucciso e fatto a pezzi all’interno della sede diplomatica dell’Arabia Saudita in Turchia, conferma la necessità che ai cronisti, in tutto il mondo, vengano riconosciute tutele e non – piuttosto – vengano tolti diritti. In Europa in effetti c’è un dibattito aperto su come certificare e difendere la buona informazione, mentre in Italia si parla di abolizione dell’Ordine dei giornalisti da parte di chi non ne riconosce il ruolo di tutela e di garanzia e sostiene che una legge europea dia più affidabilità. Riferimenti frequenti all’abolizione dell’Ordine li fa Vito Crimi, a Palazzo Chigi in quota Cinque Stelle come sottosegretario con delega all’Editoria.
Nel cosiddetto “contratto di governo” tra le due formazioni che hanno portato Giuseppe Conte a Palazzo Chigi l’abolizione dell’Ordine però non è prevista, e questo dovrebbe bastare a rendere più sereno il confronto tra la categoria e l’inedito esecutivo. Ma, all’improvviso, anticipato da un dibattito parziale e frettoloso, il Consiglio nazionale dell’Ordine dei giornalisti ha approvato un testo-proposta di riforma che non sembra portare alcun contributo alla difesa della libertà e della qualità dell’informazione, ma sembra anzi suggerire buoni argomenti a chi l’Ordine vorrebbe abolirlo.
Si tratta di un generico progetto, nascosto dietro l’asetticità apparente di una definizione vaga (“linee guida”) ma che ha il valore di proposta al Parlamento come documento di riferimento della categoria e che quindi ne dovrebbe interpretare e difendere al meglio necessità e prerogative.
Una proposta imbarazzante, perché tutto quello che ci si dovrebbe aspettare, e cioè una difesa del diritto-dovere dei giornalisti d’informare, e di conseguenza dei cittadini di conoscere, è tradito da un assetto proposto che – se approvato – sarà la fine della informazione libera e di qualità. Un grimaldello per consegnare i giornalisti a un gruppo di colleghi (i vertici dell’Ordine) che deciderà tutto, dalla formazione all’accesso, affidato – dopo una laurea obbligatoria – alle scuole gestite dal sistema. Il praticantato nelle redazioni non sarà più possibile.
I giornalisti, secondo questo disegno, saranno selezionati per censo: solo genitori benestanti potranno permettersi un figlio cronista da mantenere agli studi, magari lontano da casa, e che dovrà fare una specializzazione oltre la laurea per accedere a un lavoro che – nelle condizioni attuali di mercato – è molto spesso retribuito meno di quello che il governo propone come reddito di cittadinanza.
Accanto a questo, c’è la contemporanea dismissione della figura del pubblicista, destinata dalle “linee guida” votate e a approvate dal Cnog, Consiglio nazionale dell’Ordine dei giornalisti, ad estinguersi: anche se i destini di questa parte di giornalisti, che poi è la stragrande maggioranza, sono affidati a una decisione futura dello stesso Cnog, che proprio perché non indicata con chiarezza rende tutto più preoccupante a approssimativo.
Sono le due facce dello stesso progetto: da un lato futuri giornalisti ai quali si chiederà una specifica formazione universitaria, che dovranno investire anni di studio per ottenere un lavoro che sarà pagato in modo estremamente più modesto di qualsiasi altra professione. Dall’altro lato la figura del pubblicista, che ora rappresenta più o meno tre giornalisti su quattro, viene accantonata e liquidata come un residuo del passato, e sottomessa a pretese che – dietro l’alibi della formazione più avanzata – sono fuori dalla realtà. Tutto questo mentre interi giornali sopravvivono proprio per il lavoro quasi esclusivo nell’attività di scrittura e racconto delle notizie dei pubblicisti. Si pensi, ad esempio, alla realtà della stampa locale. Chi riempirà le colonne vuote? I giornalisti sul campo o gli impiegati – loro malgrado – della scrivania?
I professionisti preparati dalle scuole e finiti in redazione senza passare da quella scuola che è la strada, senza conoscere il contatto con le fonti, senza vivere il rapporto diretto con i protagonisti di qualsiasi cosa sia una notizia, saranno i primi ad essere inadatti e costretti a un passo indietro. Ma questo è un male per tutti, a cominciare dai cittadini, ai quali si dovrebbe garantire un’informazione corretta, completa, fatta di più voci. Il mondo dei pubblicisti, poi, rappresenta una doppia risorsa. Quella composta dai tanti cronisti che – spesso anche in forma esclusiva – portano notizie, inchieste, approfondimenti. E quella composta dai colleghi che hanno un altro lavoro principale, come il medico o l’architetto (ma che possono anche non essere laureati e non per questo inadatti al racconto della realtà) e che al mondo dell’informazione danno il contributo di una competenza specifica che diventa – da giornalisti – informazione e conoscenza.