Pignorato il conto bancario di un cronista perché il giornale dove lavorava prima di licenziarlo non ha rimosso dal web un suo articolo ritenuto diffamatorio.
In tempi in cui le testate giornalistiche sono ormai su Internet e i testi scritti e parlati finiscono in Rete, la notizia è da brividi e lascia spazio ad una serie di considerazioni: la sventura capitata al collega Fabio Di Chio può colpire ogni redattore perché la sua vicenda processuale ha mostrato vuoti che potrebbero ripetersi e la manleva (garanzia) che il giornale gli aveva firmato con l’avallo persino della FIEG si è alla fine rivelata cartastraccia.
La storia comincia nel 2014. Un pezzo del giornalista viene pubblicato su carta e sul sito online della testata. Nel 2016 le cose cominciano a complicarsi. A novembre il presunto danneggiato cita Di Chio davanti al Tribunale civile chiedendo il risarcimento dei presunti danni patrimoniali che avrebbe subito dall’articolo uscito due anni prima, e lo denuncia pure penalmente con una querela per diffamazione a mezzo stampa.
Va, però, sottolineato che quando riceve la citazione il giornalista non era più da mesi dipendente del giornale. Anzi riteneva in perfetta buona fede di stare in una botte di ferro perché aveva in tasca la manleva firmatagli dalla società editrice e convalidata addirittura da un delegato della FIEG che avrebbe dovuto proteggerlo (almeno così lui credeva) da eventuali rogne legali ed economiche. E pensava che quando il giudice avrebbe accertato le sue eventuali responsabilità avrebbe dovuto tener conto di questo fondamentale dettaglio.
Invece tutto precipita. Di Chio viene condannato proprio per non avere rimosso il pezzo (“fondamentalmente corretto”, scrive il tribunale civile) dal sito web della testata. Una condanna che non appare, però, giustificata proprio perché il collega non aveva più alcuna concreta responsabilità essendo stato già licenziato dal giornale come emergeva dal verbale di conciliazione in sede sindacale essendo ormai fuori dal giornale.
Il compito di eliminare il pezzo dal sito web spettava semmai al direttore o ad altri capiredattori in servizio. In ogni caso comunque la manleva avrebbe dovuto garantirlo al 100% da ogni sorpresa. Ma, contro ogni logica, gli vengono pignorati i soldi sul suo conto corrente. Rimane così con appena 20 euro in tasca.
C’é poi la querela per diffamazione. La sentenza penale è un ribaltone: per lo stesso articolo del 2014 il Tribunale penale assolve il giornalista con formula piena perché “il fatto non sussiste”.
Lo scenario preoccupa. Le azioni civili vanno in prescrizione solo dopo 5 anni dalla pubblicazione di un articolo ritenuto diffamatorio, le sentenze sono esecutive già dopo il primo grado e la manleva non sempre salva il cronista. Basti pensare che, in questo caso specifico, la manleva non ha avuto alcun valore perché il proprietario del giornale non aveva sottoscritto una fideiussione specifica di garanzia, né conta l’avallo del delegato della FIEG. Insomma, la prassi in base alla quale l’editore pagava per il redattore come una sorta di contropartita al rischio d’impresa é ormai, purtroppo, un bel ricordo del passato.
Oggi di regola ciascuno pensa per sé. In qualche caso sono garantiti solo il direttore e poche altre firme, ma non i giornalisti (tranne forse qualche ricca eccezione) e i collaboratori. Quindi, mai fidarsi del proprio datore di lavoro e dei direttori che cercano d’imporsi nel mare dell’informazione: se lo scafo imbarca acqua i redattori sono i primi a essere scaricati. Gli atti di fede si fanno in chiesa.