Entro la prossima primavera deciderà la Corte Costituzionale su richiesta dei tribunali di Salerno e di Bari – sede di Modugno
In attesa del verdetto della Corte Costituzionale, atteso tra alcuni mesi, la 5^ sezione penale della Cassazione ha ribadito il suo fermo no al carcere – seppure con pena sospesa – per i giornalisti condannati per il reato di diffamazione a mezzo stampa. Motivo: la detenzione per questo reato, prevista sia dall’art. 595 del codice penale art. 595 che nella legge sulla Stampa, la n. 47 del 1948, é incompatibile con la libertà di espressione dei giornalisti garantita dall’articolo 10 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. La detenzione può essere giustificata solo in casi del tutto eccezionali, cioé quando siano stati lesi gravemente altri diritti fondamentali, come, per esempio, discorsi di odio o di istigazione alla violenza. Tranne in questi casi di fronte a condanne per diffamazione gli ermellini di piazza Cavour hanno esortato i giudici italiani a non infliggere più il carcere, ma eventualmente solo multe.
La Suprema Corte, ribadendo quanto già affermato in un’altra decisione di cinque anni fa, hanno quindi sancito un principio di civiltà giuridica che non solo può essere ormai considerato “diritto vivente”, ma per di più potrà supportare la Consulta in vista della sua attesa pronuncia su questa importante e tanto dibattuta questione in tema di libertà di stampa e di diritto di cronaca, spronandola a sanare un vulnus che nel nostro Paese dura ingiustificatamente da troppo tempo e su cui, purtroppo, il Parlamento da decenni non é riuscito incredibilmente a legiferare (il 18 giugno scorso a Napoli lo stesso premier Guseppe Conte si era impegnato ad affrontare l’argomento), nonostante pubblici appelli e progetti di legge presentati da FNSI, CNOG, Ossigeno per l’Informazione, Articolo 21 e persino dalla FIEG. Insomma il carcere appare incompatibile con il diritto di cronaca e rappresenta un limite sostanziale alla libertà di informazione e quindi al sistema democratico del nostro Paese.
La sentenza n. 38721 del 19 settembre 2019, emessa dalla quinta sezione penale della Cassazione (Presidente Paolo Antonio Bruno, relatore Michele Romano), cliccare su
http://www.italgiure.giustizia.it/xway/application/nif/clean/hc.dll?verbo=attach&db=snpen&id=./20190919/snpen@s50@a2019@n38721@tS.clean.pdf, assume quindi particolare rilievo. I supremi giudici hanno ricordato che la CEDU – Corte Europea per i Diritti dell’Uomo, “con la sentenza pronunciata nella causa Sallusti contro Italia del 7 marzo 2019 e ancor prima con la sentenza Belpietro contro Italia del 24 settembre 2013, ha affermato che la pena detentiva inflitta ad un giornalista responsabile di diffamazione è sproporzionata in relazione allo scopo perseguito di proteggere la altrui reputazione e comporta una violazione della libertà di espressione garantita dall’art. 10 CEDU. Più precisamente la Corte, con la sentenza nella causa Sallusti c. Italia del 7 marzo 2019, «ritiene che l’irrogazione di una pena detentiva, ancorché sospesa, per un reato connesso ai mezzi di comunicazione, possa essere compatibile con la libertà di espressione dei giornalisti garantita dall’articolo 10 della Convenzione soltanto in circostanze eccezionali, segnatamente qualora siano stati lesi gravemente altri diritti fondamentali, come, per esempio, in caso di discorsi di odio o di istigazione alla violenza» e precisa che la violazione sussiste anche se la pena detentiva è stata sospesa”.
Applicando questi principi la Cassazione ha definitivamente annullato la pena, condizionalmente sospesa, di tre mesi di reclusione, inflitta dalla Corte di Appello di Salerno a Fabio Buonofiglio, direttore del periodico calabrese «Altre Pagine» di Corigliano-Rossano (Cosenza), per un articolo pubblicato il 13 agosto 2011 e intitolato «L’allegra compagnia d’una giustizia che va a puttane», che era stato ritenuto gravemente lesivo della reputazione del magistrato Maria Vallefuoco, sostituto procuratore della Repubblica di Rossano. Nonostante che la sua condanna al carcere – anche se sospesa – sia stata cancellata e che il reato di diffamazione sia caduto in prescrizione, il giornalista rischia comunque di essere condannato in un prossimo giudizio in sede civile a risarcire i danni in favore del pm calabrese che si era costituito parte lesa nel processo penale.
La pronuncia della Suprema Corte ribadisce quanto già affermato nella sua precedente decisione della quinta sezione penale n. 12203 del 13 marzo 2014 (Presidente Gennaro Marasca, relatore Grazia Lapalorcia), cliccare su http://www.italgiure.giustizia.it/xway/application/nif/clean/hc.dll?verbo=attach&db=snpen&id=./20140314/snpen@s50@a2014@n12203@tS.clean.pdf . In quell’occasione fu osservato che “l’irrogazione della pena detentiva in luogo di quella pecuniaria, pur a seguito del riconoscimento di attenuanti generiche equivalenti alle aggravanti, non sembra rispondere alla ratio della previsione normativa che, nel prevedere l’alternatività delle due sanzioni, palesemente riserva quella più afflittiva alle ipotesi di diffamazione connotate da più spiccata gravità”. Per contrastare l’applicabilità della pena detentiva non fu neppure trascurato l’orientamento della Corte EDU che, ai fini del rispetto dell’art. 10 della Convenzione relativo alla libertà di espressione, esige la ricorrenza di circostanze eccezionali per l’irrogazione, in caso di diffamazione a mezzo stampa, della più severa sanzione, sia pure condizionalmente sospesa, sul rilievo che, altrimenti, non sarebbe assicurato il ruolo di ‘cane da guardia’ dei giornalisti, il cui compito è di comunicare informazioni su questioni di interesse generale e conseguentemente di assicurare il diritto del pubblico di riceverle (sentenza del 24 settembre 2013 Belpietro contro Italia)”.
In un altro passaggio della decisione n. 12203 del 2014 fu sottolineato che “la libertà di espressione costituisce un valore garantito anche nell’ordinamento interno attraverso la tutela costituzionale del diritto/dovere d’informazione cui si correla quello all’informazione garantito dall’art. 21 della Costituzione, diritti i quali impongono, anche laddove siano valicati i limiti di quello di cronaca e/o di critica, di tener conto, nella valutazione della condotta del giornalista, della insostituibile funzione informativa esercitata dalla categoria di appartenenza, tra l’altro attualmente oggetto di gravi ed ingiustificati attacchi da parte anche di movimenti politici proprio al fine di limitare tale funzione”. In quella sentenza fu anche ricordato che all’epoca il legislatore ordinario italiano era “orientato al ridimensionamento del profilo punitivo del reato di diffamazione a mezzo stampa” (ma poi tutto é rimasto nei cassetti di Montecitorio e di palazzo Madama, n.d.r.).
Sulla legittimità del carcere per i giornalisti per il reato di diffamazione si esprimerà entro la prossima primavera la Corte Costituzionale. Come é noto alla Consulta è arrivata l’ordinanza emessa il 9 aprile scorso dal giudice monocratico della seconda sezione penale del Tribunale di Salerno dott. Giovanni Rossi, nel corso del processo per diffamazione a carico dell’ex collaboratore del “Roma” Pasquale Napolitano e del direttore del giornale Antonio Sasso, assistiti dall’avvocato del Sindacato unitario giornalisti della Campania Giancarlo Visone. Per il giudice Rossi il carcere per il reato di diffamazione a mezzo stampa va contro quanto previsto dall’articolo 10 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo e violerebbe anche libertà e principi fondanti sanciti dagli articoli 3, 21, 25, 27 e 117 della nostra Costituzione. La relativa ordinanza n. 140 é stata pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale del 18 settembre scorso, cliccare su https://www.gazzettaufficiale.it/atto/corte_costituzionale/caricaDettaglioAtto/originario?atto.dataPubblicazioneGazzetta=2019-09-18&atto.codiceRedazionale=19C00245 . Il termine per le parti (compresi eventualmente il CNOG e la FNSI) per costituirsi scadrà l’8 ottobre prossimo.
Nel frattempo é pervenuta a palazzo della Consulta un’altra ordinanza di cui non si era mai data alcuna notizia. E’ stata emessa dal tribunale di Bari – sede di Modugno – il 16 aprile scorso ed é stata registrata in cancelleria con il n. 149, cliccare su https://www.cortecostituzionale.it/schedaOrdinanze.do?anno=2019&numero=149&numero_parte=1 . Viene eccepita l’incostituzionalità sempre dell’art. 13 della legge sulla stampa dell’8 febbraio 1948 n. 47 in combinato disposto con l’art. 595, 3° comma, del codice penale per presunta violazione dell’articolo 117, comma 1, della Costituzione in relazione all’art. 10 della Convenzione europea per la salvaguardia diritti dell’uomo e libertà fondamentali, in quanto sarebbe illegittima la pena cumulativa della reclusione, invece che in via alternativa, per il reato di diffamazione a mezzo stampa.
Entro i primi di ottobre il presidente dell’Alta Corte Giorgio Lattanzi dovrebbe quindi fissare la data dell’udienza pubblica per entrambe le ordinanze dei tribunali di Salerno e Bari. La sentenza si conoscerà entro la prossima primavera.
Pierluigi Franz
Presidente del Sindacato Cronisti Romani presso l’Associazione Stampa Romana
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Corte di Cassazione 5^ sezione penale sentenza n. 38721 del 19/09/2019 (Presidente Paolo Antonio Bruno, relatore Michele Romano), cliccare su
SENTENZA
sul ricorso proposto da
Buonofiglio Fabio, nato a Aschaffenburg (Germania) il 21/01/1974 avverso la sentenza del 15/03/2018 della Corte di Appello di Salerno
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal consigliere Michele Romano;
udito il Pubblico Ministero, in persona Sostituto Procuratore generale Maria Giuseppina Fodaroni, che ha concluso chiedendo che il ricorso sia dichiarato inammissibile;
RITENUTO IN FATTO
1. Con la sentenza indicata in epigrafe la Corte di Appello di Salerno ha confermato la sentenza del 21 aprile 2016 del Tribunale di Salerno, che, all’esito del giudizio ordinario, ha condannato Fabio Buonofiglio alla pena, condizionalmente sospesa, di mesi tre di reclusione, oltre che al risarcimento del danno in favore della parte civile Maria Vallefuoco, per il reato di cui all’art. 595 cod. pen., in relazione all’art. 13 della legge n. 47 del 1948, applicate le circostanze attenuanti generiche equivalenti alle aggravanti.
All’imputato si contesta di avere offeso la reputazione di Maria Vallefuoco pubblicando sul periodico «Altre Pagine», da lui diretto, in data 13 agosto 2011, un suo articolo titolato «L’allegra compagnia d’una giustizia che va a puttane» in cui si affermava, per quanto di interesse in questa sede: «… già l’eventuale reato. E chi lo perseguirebbe? La magistratura? Quella che in carne ed ossa, in carne soprattutto, parteciperebbe assiduamente a talune feste mondane organizzate da una ricca imprenditoria troppo spesso border-line e forse pure a tal altri festini? Mettete per esempio insieme un ipotetico magistrato ed un altrettanto ipotetico maresciallo che perdono il loro sonno trascorrendo pomeriggi interi e notti ad indagare “a fondo”. Su cosa e sul conto di chi? Sul loro stesso conto, affusolati tra le lenzuola di un comodo letto. Mettete che la tresca sessual-amorosa vada avanti per mesi. Un rapporto extraconiugale per entrambi ed ovviamente clandestino che assume dominio pubblico negli ambienti deputati all’amministrazione della giustizia. E un marito cornuto che alimenta le chiacchiere. Che riempiono un palazzo di giustizia stracolmo di fascicoli quanto vuoto d’imbarazzo. Con avvocati che fanno quotidianamente la fila davanti alla porta di quel sostituto procuratore al fine di aggraziarselo perché non frapponga ostacoli alla richiesta di scarcerazione d’un nnalacarne finito in patria galera… mentre vi à sempre quell’altro magistrato inquirente e quel maresciallo che insieme, come due conigli, stanno fottendo la Giustizia…».
2. Ricorre per cassazione Fabio Buonofiglio, a mezzo del suo difensore, chiedendo l’annullamento della sentenza impugnata ed affidandosi a tre motivi.
2.1 Con il primo motivo lamenta violazione dell’art. 595 cod. pen., in quanto i giudici avrebbero errato nel ritenere facilmente individuabile nell’articolo il riferimento alla persona di Maria Vallefuoco, per essere la stessa l’unico sostituto procuratore di sesso femminile e coniugata in servizio alla Procura della Repubblica di Rossano, sebbene l’articolo non facesse riferimento ad un ben preciso ufficio giudiziario e nonostante che il periodico Altre Pagine fosse diffuso in tutta la Piana di Sibari, comprendente, oltre a Rossano, anche Castrovillari, sede di altra Procura della Repubblica. Inoltre, la Corte di appello si sarebbe basata esclusivamente sulle deposizioni dei testi Maria Vallefuoco e Fasano, persona di fiducia della stessa Vallefuoco, la cui attendibilità non era stata adeguatamente valutata.
2.2. Con il secondo motivo si lamenta della mancata riapertura della istruttoria dibattimentale ed in particolare della mancata escussione di altri testi, necessaria per accertare se tutti i lettori del periodico, e non solo le persone vicine alla Vallefuoco, avessero inteso che l’articolo si riferiva a quest’ultima. Inoltre, secondo il ricorrente l’esame del teste Serafino Trento era necessario per dimostrare che non era vera la circostanza riferita dalla Vallefuoco secondo la quale il Presidente del Consiglio dell’Ordine degli avvocati di Rossano Calabro, il lunedì successivo alla pubblicazione dell’articolo, le aveva manifestato la sua solidarietà. La Corte di appello aveva giudicato la prova superflua senza indicare le ragioni di tale giudizio. In tal modo era stato violato il diritto di difesa, dovendosi consentire all’imputato, a seguito della modifica dell’originaria imputazione, di assumere nuove prove.
2.3. Con il terzo motivo il ricorrente si duole dell’entità della pena, fissata in misura eccessiva rispetto alla gravità del fatto senza che fosse fornita alcuna motivazione in proposito.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il primo motivo di ricorso è inammissibile.
Nella sentenza impugnata si afferma che l’articolo sopra descritto consentiva di intendere in modo univoco il suo riferimento all’odierna parte civile, in quanto unico magistrato coniugato di sesso femminile in servizio presso la Procura della Repubblica di Rossano; il periodico si occupava principalmente del territorio di Rossano Calabro. Nella sentenza di primo grado si dà pure atto, sulla base della deposizione del teste Francesco Panebianco, che il periodico era diffuso esclusivamente in ambito locale e che l’articolo in questione si inseriva in una sequenza di pubblicazioni, riferite dai numerosi testi escussi, in cui si faceva espresso riferimento all’attività giudiziaria del Tribunale di Rossano Calabro e della Procura della Repubblica presso il medesimo Tribunale, cosicché appariva evidente che l’articolo si riferiva in modo univoco alla Vallefuoco.
Le sentenze di primo e di secondo grado si saldano tra loro e formano un unico complesso motivazionale, qualora i giudici di appello abbiano esaminato le censure proposte dall’appellante con criteri omogenei a quelli usati dal primo giudice e con frequenti riferimenti alle determinazioni ivi prese ed ai fondamentali passaggi logico-giuridici della decisione e, a maggior ragione, quando i motivi di gravame non abbiano riguardato elementi nuovi, ma si siano limitati a prospettare circostanze già esaminate ed ampiamente chiarite nella decisione impugnata (Sez. 3, n. 13926 del 01/12/2011 – dep. 2012, Valerio, Rv. 25261501). Il motivo del ricorso in cassazione poggia, pertanto, su un dato fattuale (che il periodico fosse diffuso anche nel territorio del Tribunale di Castrovillari e che l’articolo non consentisse di individuare il riferimento alla Vallefuoco) che è estraneo alla ricostruzione del fatto operata dalle due sentenze di merito. In tema di giudizio di cassazione, sono precluse al giudice di legittimità la rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione impugnata e l’autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti, indicati dal ricorrente come maggiormente plausibili o dotati di una migliore capacità esplicativa rispetto a quelli adottati dal giudice del merito (Sez. 6, n. 47204 del 07/10/2015 – dep. 2015, Musso, Rv. 26548201). Peraltro, il Tribunale e la Corte di appello, nella ricostruzione del fatto non si sono basati esclusivamente sulle deposizioni della teste Vallefuoco e del teste Fasano, ma anche sulle dichiarazioni degli altri testi escussi, che secondo quanto affermato nelle due sentenze, hanno fornito validi riscontri alla deposizione della persona offesa.
2. Anche il secondo motivo di ricorso, con il quale si lamenta la mancata riapertura dell’istruttoria per escutere i testi a prova contraria, è inammissibile.
E’ inammissibile, ai sensi dell’art. 606, comma 3, cod. proc. pen., nella parte in cui si lamenta la mancata ammissione dei testi, non meglio individuati, per verificare se tutti i lettori avessero inteso che il magistrato al quale si faceva riferimento nell’articolo fosse la Vallefuoco, trattandosi di motivo nuovo dedotto per la prima volta nel giudizio di legittimità e non dedotto con uno specifico motivo di appello.
Nel resto, il motivo è inammissibile per manifesta infondatezza. La violazione del diritto di difesa, sub specie di mancata ammissione delle prove dedotte, esige che ne sia precisata la portata indicando specificamente le prove che l’imputato non ha potuto assumere e le ragioni della loro rilevanza ai fini della decisione nel contesto processuale di riferimento, considerato che il diritto dell’imputato di difendersi citando e facendo esaminare i propri testi, trova un limite nel potere del giudice di escludere le prove superflue ed irrilevanti, ex art. 495 cod. proc. pen. (Sez. 5, n. 10425 del 28/10/2015 – dep. 2016, Lanzafame, Rv. 26755901).
Nel caso di specie, dalla sentenza di secondo grado emerge che la Corte di appello non ha accolto la richiesta di escussione del teste Serafino Trento ritenendo la prova superflua. Peraltro, dalle due sentenze di merito risulta che la circostanza che il ricorrente intendeva confutare attraverso l’esame del teste non è stata affatto presa in considerazione dai giudici di merito per fondare su di essa la affermazione della penale responsabilità dell’imputato, che ha le sue basi nel contenuto stesso dell’articolo, nella sua diffusione in ambito locale e nell’assunzione da parte dell’imputato della paternità dell’articolo medesimo. Ne consegue che risulta evidente che del tutto correttamente la Corte di appello ha ritenuto non necessaria la deposizione del teste indicato dal ricorrente, in quanto avente ad oggetto una circostanza irrilevante ai fini del giudizio.
3. Il terzo motivo di ricorso è fondato.
La Corte EDU, con la sentenza pronunciata nella causa Sallusti c. Italia del 7 marzo 2019 e ancor prima con la la sent. Belpietro c. Italia, 24 settembre 2013, ha affermato che la pena detentiva inflitta ad un giornalista responsabile di diffamazione è sproporzionata in relazione allo scopo perseguito di proteggere la altrui reputazione e comporta una violazione della libertà di espressione garantita dall’art. 10 CEDU. Più precisamente la Corte, con la sentenza nella causa Sallusti c. Italia del 7 marzo 2019, «ritiene che l’irrogazione di una pena detentiva, ancorché sospesa, per un reato connesso ai mezzi di comunicazione, possa essere compatibile con la libertà di espressione dei giornalisti garantita dall’articolo 10 della Convenzione soltanto in circostanze eccezionali, segnatamente qualora siano stati lesi gravemente altri diritti fondamentali, come, per esempio, in caso di discorsi di odio o di istigazione alla violenza» e precisa che la violazione sussiste anche se la pena detentiva è stata sospesa, come nel caso di specie.
In applicazione dei suddetti principi, non ricorrendo alcuna delle circostanze eccezionali indicate dalla Corte EDU, la pena inflitta all’odierno ricorrente risulta eccessiva ed il suo ricorso è fondato in parte qua.
4. Non risultando il ricorso inammissibile deve rilevarsi che il reato contestato al Buonofiglio si è ormai estinto per prescrizione.
Il reato è stato commesso il 13 agosto 2011 e considerando anche giorni 28 di sospensione conseguenti a due rinvii per impedimento disposti alle udienze del 14 maggio 2014 e del 9 aprile 2015, il termine massimo di prescrizione pari ad anni sette e mesi sei ai sensi degli artt. 157 e 161, secondo comma, cod. pen. è maturato in data 13 marzo 2019. Non risultando la evidenza di alcuna delle cause di proscioglimento previste dall’art. 129, comma 2, cod. proc. pen., deve dichiararsi la estinzione del reato per prescrizione e la sentenza impugnata deve essere annullata senza rinvio agli effetti penali.
5. All’inammissibilità dei primi due motivi di ricorso consegue, invece, il rigetto del ricorso agli effetti civili, con conseguente conferma delle statuizioni civili della sentenza impugnata.
P.Q.M.
Annulla senza rinvio la sentenza impugnata per essersi il reato estinto per prescrizione. Rigetta il ricorso agli effetti civili.
zzzzzzzzzzz
ORDINANZA (Atto di promovimento) 9 aprile 2019
Ordinanza del 9 aprile 2019 del Tribunale di Salerno nel procedimento penale a carico di N. P. e S. A.. Reati e pene – Stampa – Diffamazione a mezzo stampa – Trattamento sanzionatorio – Pena detentiva. – Codice penale, art. 595, comma terzo; legge 8 febbraio 1948, n. 47 (Disposizioni sulla stampa), art. 13. (19C00245) (Gazzetta Ufficiale Serie Speciale – Corte Costituzionale n.38 del 18-9-2019)
TRIBUNALE DI SALERNO
Ufficio del Giudice monocratico
Seconda sezione penale
Il giudice, dott. Giovanni Rossi, nell’ambito del procedimento penale indicato in epigrafe, a carico di N.P., nato a … il …, e S.A., nato a … il …, imputati, rispettivamente, dei reati di cui agli articoli 595 del codice penale e 13, legge n. 47/1948 (il N., quale autore dell’articolo giornalistico), nonche’ 57 del codice penale (il S., quale direttore responsabile del quotidiano «…»);
Vista l’istanza di legittimita’ costituzionale avanzata all’udienza del 12 marzo 2019 dalla difesa degli imputati;
Letta la memoria difensiva, ex art. 121 del codice di procedura penale, depositata in cancelleria dalle costituite parti civili;
Osserva
1. La questione di legittimita’ costituzionale sollevata nel caso di specie.
Il difensore di fiducia degli imputati ha sollevato la questione di legittimita’ costituzionale dell’art. 13 della legge 8 febbraio 1948, n. 47 (contestata al N. al capo A), in quanto, alla luce della costante e consolidata giurisprudenza in materia della Corte europea dei diritti dell’uomo (d’ora in poi, anche Corte di Strasburgo), la citata norma incriminatrice, in relazione alla pena detentiva da essa stabilita (da uno a sei anni di reclusione, congiuntamente alla pena pecuniaria della multa), sarebbe in palese contrasto con il parametro interposto dell’art. 10 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle liberta’ fondamentali, rilevante ai sensi dell’art. 117, comma l della Costituzione, nonche’ con l’analogo art. 21 della Costituzione italiana.
Precisamente, secondo l’assunto difensivo, anche la sola previsione astratta della possibile irrogazione di una pena detentiva in caso di diffamazione a mezzo stampa come prevista dall’art. 13, legge n. 47/1948 – comporterebbe una limitazione eccessiva del diritto convenzionalmente e costituzionalmente tutelato della liberta’ di manifestazione del pensiero e di cronaca del giornalista, incompatibile con l’art. 10 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle liberta’ fondamentali, come costantemente interpretato dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo.
A tale ultimo riguardo, in particolare, a sostegno delle sue argomentazioni, la difesa richiama la recente sentenza della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle liberta’ fondamentali del 7 marzo 2019, Sallusti c. Italia, nonche’, tra le altre, la sentenza della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle liberta’ fondamentali del 24 settembre 2013, Belpietro c. Italia. In entrambe le pronunce, infatti, la Corte europea dei diritti dell’uomo, condannando l’Italia per violazione dell’art. 10 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle liberta’ fondamentali ha ribadito che la sanzione della reclusione – pur condizionalmente sospesa – e’ compatibile con la liberta’ convenzionalmente tutelata dal citato art. 10 soltanto «in casi eccezionali», cioe’ quando altri prevalenti diritti fondamentali possono essere lesi, come ad esempio nei discorsi d’odio e di incitazione alla violenza.
2. La rilevanza della q.l.c.
Preliminarmente, ai sensi dell’art. 23 della legge 11 marzo 1953, n. 87, deve essere valutata la rilevanza e la non manifesta infondatezza della questione di legittimita’ costituzionale sollevata dalla difesa degli imputati.
Ebbene, nella fattispecie de qua, e’ di palmare evidenza la concreta rilevanza della questione sottoposta al vaglio di questo giudicante nell’ambito del procedimento penale in oggetto.
Allo stesso modo, inoltre, la questione non appare manifestamente infondata, per le argomentazioni che si espliciteranno più approfonditamente nel prosieguo; questione che, peraltro, il Tribunale ritiene di estendere, di ufficio, anche all’art. 595, comma 3, del codice penale, non essendo sostanzialmente divergenti i termini degli aspetti problematici in esame.
In particolare, circa la rilevanza della q.l.c., deve evidenziarsi che nel caso di specie viene contestato agli imputati – ciascuno nella sua qualita’ – proprio il reato di diffamazione a mezzo stampa di cui agli articoli 595 del codice penale e 13 della legge 8 febbraio 1948, n. 47, la cui condotta criminosa e’ richiamata, per relationem, per contestare al direttore responsabile della testata giornalistica il corrispondente reato omissivo ai sensi dell’art. 57 del codice penale.
Con l’articolo di giornale addebitato in imputazione, segnatamente, secondo l’ipotesi accusatoria, veniva attribuita alle persone offese diffamate una condotta determinata (di qui la contestazione dell’aggravante di cui all’art. 13 della citata legge n. 47/1948), poi risultata non essere vera a seguito degli accertamenti investigativi.
A tale proposito, per comprendere appieno la palese rilevanza della q.l.c. proposta, e’ appena il caso di riportare testualmente in questa sede l’editto accusatorio, da cui si evince chiaramente che la fattispecie concreta sottoposta all’esame di questa A.G. e’ una condotta di diffamazione a mezzo stampa, con la quale veniva attribuito un fatto determinato, come tale rientrante sia nella disciplina generale della diffamazione dell’art. 595, comma 3 del codice penale, sia nella disciplina speciale dell’art. 13 della legge 8 febbraio 1948, n. 47.
Queste le imputazioni in contestazione:
«N. A) del reato p. e p. dagli articoli 595 del codice penale e 13, legge n. 47/1948, perche’ sul “…”, inserto del quotidiano “…”, offendeva la reputazione di C.B. e C.G., redigendo un articolo, il cui occhiello riportava: “Sequestrata un’area di 300 metri quadri, presi B. e G.C., dell’omonima cosca”; il cui titolo indicava: «Chiuso parking abusivo dei clan» ed il cui contenuto riportava: «Gli autori dello scempio che si consumava nel centro della citta’ di … sono due affiliati al clan … di … I militari … hanno fatto scattare le manette ai polsi di B.C. e di G.C., entrambi ritenuti elementi di spicco del clan camorristico “…” operante nel … ed in vari comuni dell’area … e referenti locali per … del clan camorristico. … Il clan … lentamente sta occupando i territori … La cosca e’ dura a morire … Negli ultimi tempi, grazie all’alleanza con il clan …, i … si sono spostati nel … con attivita’ di riciclaggio e spaccio di droga, laddove i …, per come puo’ evincersi dagli atti di indagine della Direzione distrettuale antimafia di Napoli, non risultavano affatto essere affiliati al citato clan.
In Fisciano il 27 maggio 2012, sede della tipografia.
S. B) del reato p. e p. dall’art. 57 del codice penale perche’ quale direttore responsabile del quotidiano “…”, omettendo colposamente di’ esercitare il necessario controllo, non impediva che il N. consumasse il delitto di cui al capo A).
In Napoli, in epoca immediatamente antecedente al 27 maggio 2012».
Di conseguenza, tenuto conto dell’ipotesi accusatoria appena richiamata, trattandosi evidentemente di un’ipotesi concreta di diffamazione a mezzo stampa, e’ doveroso che il giudizio di merito non possa essere definito a prescindere dalla risoluzione della sollevata questione di legittimita’ costituzionale concernente le disposizioni legislative – di cui agli articoli 595 del codice penale e 13, legge 8 febbraio 1948, n. 47, riguardanti appositamente la fattispecie criminosa della diffamazione a mezzo stampa, essendo particolarmente rilevante la natura della sanzione – detentiva e/o pecuniaria – che eventualmente il giudice dovrebbe irrogare in concreto in caso di condanna.
Pertanto, secondo il Tribunale, senza alcun dubbio deve ritenersi sussistente la concreta rilevanza della questione di legittimita’ costituzionale delle disposizioni legislative di cui agli articoli 595 del codice penale e 13, legge 8 febbraio 1948, n. 47.
3. Non manifesta infondatezza della q.l.c.
Passando al secondo requisito determinante per la proponibilita’ della questione di legittimita’ costituzionale in esame, deve evidenziarsi che quest’ultima, a giudizio del Tribunale, non puo’ ritenersi manifestamente infondata.
Nella fattispecie concreta, piu’ in particolare, e’ evidente che la questione di legittimita’ costituzionale attenga alla necessita’ di un adeguamento del diritto interno, segnatamente, del diritto penale in materia di diffamazione a mezzo stampa, al generale principio di cui all’art. 10 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle liberta’, cosi’ come costantemente interpretato dalla Corte di Strasburgo, anche nei recenti giudizi contro l’Italia (cfr. Sallusti c. Italia e Belpietro c. Italia cit.).
Nello specifico, considerato che l’istante sostiene l’illegittimita’ dell’art. 13 della legge 8 febbraio 1948, n. 47 in quanto – nella parte in cui prevede la pena detentiva – la disposizione citata violerebbe, oltre all’art. 21 della Costituzione, il generale principio della liberta’ di espressione di cui all’art. 10 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle liberta’, come interpretato dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, quale parametro interposto ai sensi dell’art. 117, comma 1 della Costituzione, e’ compito iniziale di questo giudicante individuare una interpretazione convenzionalmente conforme della disposizione scrutinata, per poi valutare, solo in un secondo momento, contemperati tutti gli altri diritti costituzionali in bilanciamento, se effettivamente la violazione del principio convenzionale in oggetto determini realmente anche la illegittimita’ costituzionale della disposizione legislativa nazionale.
Difatti, come ribadito a piu’ riprese dalla giurisprudenza della Corte costituzionale sul punto, «L’interpretazione del giudice comune, ordinario o speciale, orientata alla conformita’ alla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle liberta’ fondamentali – le cui prescrizioni e principi appartengono indubbiamente ai vincoli derivanti da obblighi internazionali con impronta costituzionale (quelli con «vocazione costituzionale»: sentenza n. 194 del 2018) – non implica anche necessariamente l’illegittimita’ costituzionale della disposizione oggetto dell’interpretazione per violazione di un principio o di una previsione della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle liberta’, quale parametro interposto ai sensi dell’art. 117, primo comma della Costituzione. E’ ricorrente che gli stessi principi o analoghe previsioni si rinvengano nella Costituzione e nella Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle liberta’, cosi’ determinandosi una concorrenza di tutele, che pero’ possono non essere perfettamente simmetriche e sovrapponibili; vi puo’ essere uno scarto di tutele, rilevante soprattutto laddove la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo riconosca, in determinate fattispecie, una tutela piu’ ampia. Questa Corte ha gia’ affermato che, quando viene in rilievo un diritto fondamentale, «il rispetto degli obblighi internazionali […] puo’ e deve […] costituire strumento efficace di ampliamento della tutela stessa» (sentenza n. 317 del 2009). E’ quanto si e’ verificato da ultimo (sentenza n. 120 del 2018) con riferimento al diritto di associazione sindacale, tutelato sia dalla Costituzione (art. 39) che dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle liberta’ fondamentali (art. 11). Non c’e’ pero’, nel progressivo adeguamento alla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle liberta’, alcun automatismo, come risulta gia’ dalla giurisprudenza di questa Corte, stante, nell’ordinamento nazionale, il «predominio assiologico della Costituzione sulla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle liberta’» (sentenza n. 49 del 2015). Da una parte, la denunciata violazione del parametro convenzionale interposto, ove gia’ emergente dalla giurisprudenza della Corte EDU, puo’ comportare l’illegittimita’ costituzionale della norma interna sempre che nelle pronunce di quella Corte sia identificabile un «approdo giurisprudenziale stabile» (sentenza n. 120 del 2018) o un «diritto consolidato» (sentenze n. 49 del 2015 e, nello stesso senso, n. 80 del 2011). Inoltre, va verificato che il bilanciamento, in una prospettiva generale, con altri principi presenti nella Costituzione non conduca a una valutazione di sistema diversa – o comunque non necessariamente convergente – rispetto a quella sottesa all’accertamento, riferito al caso di specie, della violazione di un diritto fondamentale riconosciuto dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle liberta’.
Va infatti ribadito che, «[a] differenza della Corte EDU, questa Corte […] opera una valutazione sistemica, e non isolata, dei valori coinvolti dalla norma di volta in volta scrutinata, ed e’, quindi, tenuta a quel bilanciamento, solo ad essa spettante» (sentenza n. 264 del 2012); bilanciamento in cui si sostanzia tra l’altro il «margine di apprezzamento» che compete allo Stato membro (sentenze n. 193 del 2016, n. 15 del 2012 e n. 317 del 2009)» (cfr., testualmente, in motivazione, la recente sentenza della Corte costituzionale n. 25/19 del 24 gennaio 2019, pubblicata nella Gazzetta Ufficiale il 6 marzo 2019).
In estrema sintesi, la richiamata giurisprudenza della Consulta, in materia di violazione dei principi e prescrizioni della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle liberta’, ha cristallizzato le seguenti regole generali:
a) un’interpretazione convenzionalmente orientata della norma non comporta automaticamente una sua illegittimita’ costituzionale, in quanto puo’ esservi nell’ordinamento interno un principio o una disposizione che tuteli un principio analogo a quello oggetto della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle liberta’ fondamentali e che si ritiene violato; b) quando la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, in materia di diritti fondamentali, riconosca una tutela piu’ ampia al principio violato in questione, il rispetto degli obblighi internazionali – di cui all’art. 117, comma 1 della Costituzione – diventa uno strumento efficace per ampliare la tutela della disciplina nazionale e cosi’ adeguarla alla normativa della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle liberta’; c) tale ampliamento e adeguamento di tutela non e’ pero’ automatico – con conseguente dichiarazione di incostituzionalita’ della norma interna, ai sensi dell’art. 117, comma 1 della Costituzione, in relazione al parametro convenzionale interposto violato – ma subordinato, da un lato, al riconoscimento dell’esistenza di un orientamento stabile e consolidato della giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo sul punto, dall’altro, all’assenza di un diverso principio o valore costituzionalmente tutelato che, in un bilanciamento sistematico di interessi, sia prevalente e non convergente con l’interpretazione convenzionalmente orientata.
Orbene, nel caso di specie, a parere di questo giudicante, ricorrono tutti i requisiti richiesti dalle regole generali determinate dalla Corte costituzionale e sopra indicati, sub a), b) e c), per poter validamente sollevare la questione di legittimita’ costituzionale delle disposizioni legislative in parola.
Piu’ in particolare, come si vedra’ subito dopo, il generale principio e diritto della liberta’ di espressione sancito dall’art. 10 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle liberta’, oggetto della giurisprudenza di Strasburgo, trova nell’ordinamento nazionale un principio e diritto speculare nella liberta’ di manifestazione di pensiero – e di stampa – costituzionalmente garantita dall’art. 21 della Costituzione.
Pertanto, considerato che nel nostro ordinamento interno l’art. 21 della Costituzione garantisce una tutela – primaria e fondamentale – analoga alla liberta’ di espressione del pensiero assicurata dall’art. 10 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle liberta’, e’ chiaro che la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo formatasi su tale ultima disposizione possa e debba essere utilizzata quale strumento di ampliamento e adeguamento del diritto interno, in quanto con essa si riconosce una forma di tutela assai ampia, e certamente piu’ favorevole, del diritto di manifestazione di pensiero, specificamente, nella parte in cui esclude la possibilita’ di prevedere – anche solo in astratto – l’applicazione di una pena detentiva per la diffamazione a mezzo stampa realizzata dai giornalisti, fatti salvi «i casi eccezionali».
In tal modo, quindi, risultano pienamente integrati i profili richiesti sub a) e b).
Per quanto riguarda, invece, la sussistenza dei requisiti richiesti sub c), ovvero l’esistenza di una costante e consolidata giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo in materia, da un lato, e l’assenza di contrastanti interessi nazionali prevalenti, dall’altro, deve essere osservato quanto segue.
In primo luogo, deve evidenziarsi che la recentissima giurisprudenza della Corte di Strasburgo, formatasi proprio in un caso italiano e richiamata anche dai difensore istante (caso Sallusti c. Italia), si colloca nell’ambito di una costante giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo in materia di diffamazione a mezzo stampa, secondo la quale, in particolare, l’ingerenza nella liberta’ di espressione dei giornalisti e’ in palese violazione dell’art. 10 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle liberta’ fondamentali quando preveda l’applicazione di una pena detentiva al di fuori delle «ipotesi eccezionali», ove tale sanzione non e’ necessaria e non e’ proporzionata rispetto al diritto perseguito e tutelato.
In secondo luogo, poi, non si ravvisano nel nostro ordinamento interno dei principi, valori e/o diritti costituzionali che, all’esito di un giudizio di bilanciarnento di interessi in conflitto, possano ritenersi concretamente prevalenti rispetto al fondamentale diritto di manifestazione del pensiero di cui all’art. 21 della Costituzione, analogo alla generale liberta’ di espressione di cui all’art. 10 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle liberta’, il quale, conseguentemente, non puo’ e non deve essere minimamente compresso con la minaccia – anche solo astratta – di una pena detentiva per il reato di diffamazione a mezzo stampa, fatti salvi ovviamente «i casi eccezionali» ritenuti tali dal legislatore.
3.1. Circa il primo profilo (dell’esistenza di una costante giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo in materia di diffamazione a mezzo stampa), piu’ nello specifico, e’ opportuno qui riportare, da una parte, il testo dell’art. 10 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle liberta’, quale parametro interposto ai sensi dell’art. 117, comma 1 della Costituzione, dall’altra, quanto recentemente ribadito espressamente dalla stessa Corte europea dei diritti dell’uomo nel ricordato caso Sallusti c. Italia e dalla costante giurisprudenza Edu ivi richiamata.
L’art. 10 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle liberta’ fondamentali prevede che: «1 Ogni persona ha diritto alla liberta’ d’espressione. Tale diritto include la liberta’ d’opinione e la liberta’ di ricevere o di comunicare informazioni o idee senza che vi possa essere ingerenza da parte delle autorita’ pubbliche e senza limiti di frontiera. 2 L’esercizio di queste liberta’, poiche’ comporta doveri e responsabilita’, puo’ essere sottoposto alle formalita’, condizioni, restrizioni o sanzioni che sono previste dalla legge e che costituiscono misure necessarie, in una societa’ democratica, alla sicurezza nazionale, all’integrita’ territoriale o alla pubblica sicurezza, alla difesa dell’ordine e alla prevenzione dei reati, alla protezione della salute o della morale, alla protezione della reputazione o dei diritti altrui, per impedire la divulgazione di informazioni riservate o per garantire l’autorita’ e l’imparzialita’ del potere giudiziario».
Ebbene, in merito all’interpretazione di tale disposizione, occorre rilevare che, con la citata pronuncia del 7 marzo 2019 nel caso Sallusti c. Italia, dopo aver precisato che la questione controversa sulla natura della sanzione attiene alla valutazione circa la reale «necessita’ e proporzione» di una pena detentiva in caso diffamazione a mezzo stampa, quale evidente ingerenza nella liberta’ di espressione, la Corte europea dei diritti dell’uomo ha testualmente ricordato quanto segue: «51. I principi generali relativi alla necessita’ di un’ingerenza nella liberta’ di espressione sono riassunti nelle cause Morice c. Francia [GC], n. 29369/10, §§ 124-139, Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle liberta’ fondamentali 2015 e Belpietro (sopra citata, §§ 47-54, ndr, Belpietro c. Italia, n. 43612/10, 24 settembre 2013). 52. In particolare, la Corte sottolinea che il criterio della «necessita’ in una societa’ democratica» esige che essa determini se l’ingerenza lamentata corrispondesse a una «pressante esigenza sociale», se i motivi addotti dalle autorita’ nazionali per giustificare l’ingerenza fossero «pertinenti e sufficienti» e se la sanzione inflitta fosse «proporzionata al fine legittimo perseguito» (si veda Belpietro, sopra citata, §§ 49-50).
[…] 59. Benche’ l’irrogazione delle pene sia in linea di principio una materia di competenza dei tribunali nazionali, la Corte ritiene che l’irrogazione di una pena detentiva, ancorche’ sospesa, per un reato connesso ai mezzi di comunicazione, possa essere compatibile con la liberta’ di espressione dei giornalisti garantita dall’art. 10 della Convenzione soltanto in circostanze eccezionali, segnatamente qualora siano stati lesi gravemente altri diritti fondamentali, come, per esempio, in caso di discorsi di odio o di istigazione alla violenza (si veda, Cumpana e Mazare c. Romania (GC], n. 33348/96, § 115, Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle liberta’ fondamentali 2004-XI). A tale riguardo, la Corte ril eva le recenti iniziative legislative da parte delle autorita’ italiane finalizzate, in linea con le recenti pronunce della Corte contro l’Italia, a limitare il ricorso a sanzioni penali per il reato di diffamazione, e a introdurre un’importante misura positiva, ovvero l’abolizione della pena della reclusione per il reato di diffamazione(…)».
In altri termini, alla luce dei principi generali ricordati dalla pronuncia in parola, secondo la Corte europea dei diritti dell’uomo, la compressione del diritto di espressione dei giornalisti mediante l’applicazione di una pena detentiva in caso di diffamazione a mezzo stampa, benche’ in astratto non incompatibile con il diritto convenzionale, deve considerarsi generalmente contraria all’art. 10 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle liberta’, poiche’ tale sanzione – di natura detentiva – risulta di per se’ eccessiva e sproporzionata, a meno che non ricorrano «casi eccezionali» di gravi lesioni di ulteriori diritti fondamentali, quali, a titolo solo esemplificativo, i discorsi d’odio e di istigazione alla violenza.
Difatti, nel caso di specie, escludendo la sussistenza di una tale ipotesi eccezionale, pur a fronte di un legittimo fine di tutela dell’altrui reputazione, la Corte europea dei diritti dell’uomo ha ritenuto non giustificata la condanna a pena detentiva irrogata al Sallusti, affermando conclusivamente che, in sostanza: «Tale sanzione, per sua stessa natura, ha inevitabilmente un effetto dissuasivo (si veda, mutatis mutandis, Kapsis e Danikas c. Grecia, n. 52137/12, § 40, 19 gennaio 2017). Il fatto che la pena detentiva del ricorrente sia stata sospesa non modifica tale conclusione, in quanto la singola commutazione di una pena detentiva in una sanzione pecuniaria e’ una misura soggetta al potere discrezionale del Presidente della Repubblica italiana.».
A tale riguardo, piu’ in particolare, per comprendere pienamente il ragionamento giuridico costantemente svolto dalla Corte europea dei diritti dell’uomo in merito alla reale natura della pena detentiva comminata in astratto in caso di diffamazione a mezzo stampa e, quindi, all’apprezzamento dell’effettiva proporzionalita’ e necessita’ dell’ingerenza sulla liberta’ di espressione mediante la minaccia di tale pena, e’ illuminante riportare in questa sede le specifiche argomentazioni sostenute dalla Corte europea dei diritti dell’uomo nella causa Cumpana e Mazare c. Romania, n. 33348/96, §§ 113-115, come riportate testualmente – e condivise – dalla citata sentenza Belpietro c. Italia, n. 43612/10 del 24 settembre 2013, i cui principi generali, come appena evidenziato, sono stati da ultimo interamente confermati e ribaditi proprio nella sentenza Sallusti c. Italia del 7 marzo 2019.
Con le predette argomentazioni, infatti, la Corte europea dei diritti dell’uomo afferma espressamente che: «113. Se gli Stati contraenti hanno la facolta’, se non il dovere, in virtu’ dei loro obblighi positivi derivanti dall’art. 8 della Convenzione, di disciplinare l’esercizio della liberta’ di espressione in modo da garantire che la legge tuteli adeguatamente la reputazione degli individui, essi devono evitare, facendolo, di adottare misure idonee a dissuadere i media dallo svolgere il loro compito di avvisare il pubblico in caso di apparenti o presunti abusi dei pubblici poteri. I giornalisti di inchiesta potrebbero mostrarsi reticenti a esprimersi su questioni di interesse generale (…) se corrono il rischio di essere condannati, quando la legislazione prevede sanzioni di questo tipo per gli attacchi ingiustificati contro la reputazione altrui, a pene detentive o che comportano il divieto di esercitare una professione. 114. L’effetto dissuasivo che il timore di sanzioni di questo tipo comporta per l’esercizio da parte dei giornalisti della loro liberta’ di espressione e’ evidente (…). Nocivo per la societa’ nel suo complesso, fa anch’esso parte degli elementi da prendere in considerazione in sede di valutazione della proporzionalita’ – e dunque della giustificazione – delle sanzioni inflitte (…). 115. Se la fissazione delle pene e’, in linea di principio, appannaggio dei giudici nazionali, la Corte considera che una pena detentiva inflitta per un reato commesso nell’ambito della stampa sia compatibile con la liberta’ di espressione giornalistica sancita dall’art. 10 solo in circostanze eccezionali, in particolare quando altri diritti fondamentali siano gravemente lesi, come nel caso, ad esempio, della diffusione di un discorso di odio o di incitazione alla violenza (…).».
In definitiva, come emerge palesemente dal testo delle richiamate motivazioni, secondo la Corte europea dei diritti dell’uomo, salvo i «casi eccezionali», la previsione di una pena detentiva per i reati di diffamazione a mezzo stampa deve essere generalmente ritenuta sproporzionata e non giustificata, in quanto l’effetto assolutamente dissuasivo derivante gia’ dalla semplice minaccia dell’applicazione di tale sanzione – detentiva – risulterebbe di per se’ eccessivamente limitativo della liberta’ di espressione giornalistica di cui all’art. 10 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle liberta’.
3.2. Circa il secondo profilo (nella specie, l’assenza di un valore costituzionale prevalente e contrastante con il diritto convenzionalmente tutelato), come gia’ anticipato, e’ appena il caso di ricordare nuovamente che il nostro ordinamento interno prevede una disposizione analoga all’art. 10 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle liberta’, in particolare, l’art. 21 della Costituzione, che, al pari della disposizione convenzionale, garantisce un ruolo primario ed essenziale nella vita democratica del paese alla liberta’ di manifestazione del pensiero, in tutte le sue forme, quindi anche in quella giornalistica, tanto e’ vero che, al secondo comma, la disposizione costituzionale citata tutela espressamente anche la liberta’ di stampa.
Di converso, non sono ricavabili nell’ordinamento interno valori e/o principi costituzionali superiori che assumano, in via generale, prevalenza assoluta rispetto al diritto di cui all’art. 21 della Costituzione e, quindi, anche rispetto al fondamentale diritto convenzionale di cui all’art. 10 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle liberta’, cosi’ come interpretato dalla Corte di Strasburgo.
Peraltro, il dato che non vi sia nell’ordinamento nazionale un interesse prevalente che impedisca di adottare un’interpretazione convenzionalmente orientata delle disposizioni legislative in questione, e’ dimostrato dalla circostanza storica che il legislatore italiano, ormai da tempo, ha al suo esame diversi disegni di legge proprio per la modifica della disciplina sanzionatoria in materia di reati a mezzo stampa, anche in ossequio delle recenti sentenze di condanna pronunciate contro l’Italia dalla Corte europea dei diritti dell’uomo in materia.
Ancora una volta, e’ estremamente emblematico quanto ricordato testualmente dalla Corte europea dei diritti dell’uomo sul punto nel caso Sallusti c. Italia, ove si da’ atto, tra l’altro, del parere espresso dalla Commissione europea per la democrazia attraverso il diritto (c.d. «Commissione di Venezia») sulla questione della compatibilita’ della legislazione italiana in materia di diffamazione con l’art. 10 della Convenzione: «32. In data 9 novembre 2013 la Commissione di Venezia, mediante Parere n. 715/2013 («Parere sulla legislazione italiana in materia di diffamazione») osservo’ che era in corso una riforma della legislazione in materia di diffamazione ([…]): le modifiche proposte prevedevano, inter alia, la limitazione del ricorso a disposizioni penali, l’abolizione della reclusione quale possibile pena e un importo massimo per le sanzioni pecuniarie, che mancava nell’art. 595 commi 3 e 4 del codice penale (abrogato dal disegno di legge). La Commissione di Venezia era dell’opinione che le sanzioni pecuniarie di importo elevato costituissero «una minaccia avente un effetto dissuasivo quasi pari alla reclusione» ma ricordo’ anche che cio’ doveva essere considerato «un notevole miglioramento, in conformita’ agli inviti del Consiglio d’Europa a sanzioni piu’ miti per il reato di diffamazione». 33. La Commissione di Venezia, tuttavia, benche’ soddisfatta delle modifiche proposte, osservo’ che il disegno di legge, presentato nel 2013, era ancora pendente dinanzi alla Commissione permanente Giustizia del Senato».
Orbene, cio’ ricordato, nonostante questi opportuni miglioramenti profilati dallo stesso legislatore italiano, non puo’ che prendersi atto che, allo stato, nessuna modifica legislativa e’ intervenuta in materia di reato di diffamazione a mezzo stampa, che continua ad essere punito, pertanto, con la pena detentiva – sola o congiunta alla pena pecuniaria – proprio dagli articoli 595 del codice penale e 13, legge 8 febbraio 1948, n. 47 qui oggetto della q.l.c. in esame.
3.3. Volendo individuare una interpretazione convenzionalmente orientata, dunque, alla luce della giurisprudenza della Corte europa dei diritti dell’uomo sopra analizzata, non essendovi principi e/o diritti costituzionali contrastanti e prevalenti, si dovrebbe sostenere che la disposizione dell’art. 13, legge 8 febbraio 1948, n. 47, punisca con la pena detentiva – congiuntamente alla pena pecuniaria – esclusivamente le condotte diffamatorie a mezzo stampa che rivestano i caratteri dell’eccezionalita’, ovvero i cosiddetti «casi eccezionali» cui fa riferimento la stessa Corte europea dei diritti dell’uomo.
Tuttavia, in ossequio al generale principio di tassativita’ e determinatezza, quale corollario del supremo principio di legalita’ in materia penale sancito dall’art. 25 della Costituzione, non e’ compito di questo giudice integrare la norma incriminatrice di questo ulteriore requisito normativa dell’eccezionalita’, i cui precisi contorni e confini, peraltro, dovrebbero pur sempre essere determinati puntualmente dal legislatore, cui spetta in via esclusiva il potere di legiferare in materia penale, essendo i giudici, ai sensi dell’art. 101, comma 1 della Costituzione, soggetti soltanto alla legge.
A tale ultimo proposito, occorre precisare che questo Tribunale e’ consapevole che la giurisprudenza di legittimita’ in materia – il cosiddetto diritto vivente – nelle occasioni in cui si e’ pronunciata in materia di diffamazione a mezzo stampa ha sostenuto una compatibilita’ convenzionale e costituzionale della pena detentiva irrogata.
Sotto questo profilo, in particolare, e’ necessario evidenziare che, in quelle occasioni, la Cessazione ha asserito la compatibilita’ di una condanna a pena detentiva per il reato di diffamazione a mezzo stampa ritenendo che, nei singoli casi di specie, ricorressero gli estremi delle «ipotesi eccezionali» di cui alla giurisprudenza della Corte di Strasburgo.
Tuttavia, a seguito dei ricorsi dei condannati alla Corte europea dei diritti dell’uomo, e’ stata poi la stessa giurisprudenza di Strasburgo a negare categoricamente che ricorressero nei casi di specie le «ipotesi eccezionali» invece originariamente ritenute sussistenti dalla Corte di Cassazione (cfr. Belpietro c. Italia, Sallusti’ c. Italia).
Sul punto, e’ significativo ricordare quanto icasticamente asserito da ultimo dalla Corte europea dei diritti dell’uomo in merito alla decisione adottata dalla Corte di Cassazione nel caso Sallusti c. Italia (di conferma della sentenza di condanna a pena detentiva) circa la sussistenza di una «ipotesi eccezionale», poi, in realta’, negata in concreto dai giudici di Strasburgo: «Con sentenza del 26 settembre 2012, depositata nella pertinente cancelleria in data 23 ottobre 2012, la Corte di Cassazione confermo’ le conclusioni della Corte di appello, valutando, inter alia, la compatibilita’ della condanna e della pena inflitta alla luce della giurisprudenza della Corte. In particolare, la Corte di Cassazione tento’ di giustificare l’irrogazione di una pena detentiva, sostenendo che il caso presentava circostanze eccezionali. In particolare, l’irrogazione della pena detentiva era stata giustificata da una serie di fattori concorrenti, quali la sussistenza della circostanza aggravante della «attribuzione di un fatto determinato»; la personalita’ del ricorrente, i suoi precedenti penali (in quanto il ricorrente era recidivo) e il fatto che la pubblicazione di informazioni false aveva leso la reputazione del G.C., un magistrato».
Come anticipato, pero’, non condividendo le motivazioni della Cassazione, la Corte europea dei diritti dell’uomo non ha poi ritenuto sussistente nel caso di specie alcuna «ipotesi eccezionale», come peraltro aveva gia’ fatto anche nel precedente caso «Belpietro c. Italia».
Detto tutto questo, e’ evidente che la richiamata giurisprudenza di legittimita’ non possa essere presa in considerazione come parametro di interpretazione convenzionalmente e costituzionalmente orientata, in quanto, come appena sottolineato, la stessa si e’ poi rivelata, a posteriori, contraria all’orientamento consolidato della giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo in materia, che nelle due occasioni di condanna a pena detentiva per diffamazione a mezzo stampa non ha in effetti riconosciuto la sussistenza di alcuna «ipotesi eccezionale».
4. La q.l.c. dell’art. 595 del codice penale.
Tutte le argomentazioni sopra esposte, come gia’ anticipato, possono essere estese, mutatis mutandis, anche alla fattispecie delittuosa di cui all’art. 595, comma 3, del codice penale, con la quale in caso di diffamazione commessa col mezzo della stampa (o con qualsiasi altro mezzo di pubblicita’ ovvero in atto pubblico) il legislatore punisce l’autore del reato con la pena detentiva della reclusione alternativamente alla pena pecuniaria della multa non inferiore ad euro 516.
La fattispecie in questione, infatti, differisce dalla diffamazione a mezzo stampa aggravata di cui all’art. 13, legge 8 febbraio 1948, n. 47 soltanto perche’, a differenza di quest’ultima, in essa non viene attribuito un fatto determinato alla persona offesa.
A tale proposito, invero, per quel che qui rileva, deve evidenziarsi che il dato normativo che la pena detentiva sia prevista astrattamente solo come alternativa – e non congiunta – alla pena pecuniaria non consente di poter effettuare valutazioni differenti rispetto a quanto tutto sopra considerato in merito alla tutela della liberta’ di espressione, di cui all’art. 21 della Costituzione e 10 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle liberta’, quest’ultimo cosi come interpretato dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo.
Difatti, come sopra ampiamente evidenziato, a prescindere dalla scelta di voler irrogare concretamente la sanzione pecuniaria piuttosto che la pena detentiva, rimessa alla discrezionalita’ del singolo giudice, tenuto conto di tutte le contingenze del caso di specie e bilanciate tutte le circostanze (aggravanti ed attenuanti) eventualmente ritenute sussistenti, e’ gia’ la stessa previsione astratta di una pena detentiva – quindi la comminazione legislativa della stessa – ad essere eccessivamente limitativa del fondamentale diritto di manifestazione del pensiero, come tale in evidente violazione degli articoli 10 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle liberta’ fondamentali e 21 della Costituzione.
5. Parametri interni.
Oltre al parametro convenzionale interposto dell’art. 10 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle liberta’, rilevante ai sensi dell’art. 117, comma 1 della Costituzione, e’ evidente che le disposizioni normative qui in esame siano contrarie anche ai principi costituzionali di cui agli articoli 3, 21 e 25 della Costituzione.
Difatti, per tutte le argomentazioni sopra esposte, la previsione – anche solo astratta – di una pena detentiva per il reato di diffamazione a mezzo stampa sarebbe manifestamente irragionevole e totalmente sproporzionata rispetto alla liberta’ di manifestazione di pensiero, anche nella forma del diritto di cronaca giornalistica, fondamentale diritto costituzionalmente garantito dall’art. 21 della Costituzione, la cui tutela, in assenza di contrari interessi giuridici interni prevalenti, non puo’ che essere favorevolmente estesa nelle forme stabilite dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, eliminando cosi’, salvi i «casi eccezionali», anche la mera comminazione di qualunque pena detentiva.
Di conseguenza, a seguito di un contemperato bilanciamento dei diversi valori costituzionali contrapposti, la liberta’ di manifestazione di pensiero, da un lato, e la liberta’ personale dell’individuo, dall’altro, la previsione legislativa di una pena detentiva per i reati a mezzo stampa risulterebbe finanche contraria al supremo principio costituzionale di necessaria offensivita’, di cui all’art. 25 della Costituzione, in quanto totalmente sproporzionata, irragionevole e non necessaria rispetto al bene giuridico tutelato dalle norme incriminatrici in questione, ovvero il rispetto della reputazione personale.
In caso contrario, infine, nel mantenere la previsione della pena detentiva nelle fattispecie di diffamazione a mezzo stampa, vi sarebbe anche un’evidente violazione del principio costituzionale della funzione rieducativa della pena, di cui all’art. 27, comma 3 della Costituzione, attesa la inidoneita’ della minacciata sanzione detentiva a garantire il pieno rispetto della funzione generaipreventiva e specialpreventiva della pena stessa. Difatti, anche alla luce della analizzata giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, se la pena detentiva – al di fuori dei casi eccezionali – e’ sempre sproporzionata rispetto alla liberta’ di manifestazione del pensiero a mezzo stampa, da un lato, dal punto di vista della prevenzione generale, certamente la generalita’ dei consociati non sarebbe culturalmente orientata ad astenersi dal commettere una condotta diffamatoria a mezzo stampa per la quale lo Stato italiano prevede una pena detentiva che pero’ la Corte europea dei diritti dell’uomo ritiene sproporzionata e, quindi, non irrogabile in concreto; dall’altro, invece, e soprattutto, dal punto di vista specialpreventivo, sicuramente ogni singolo giornalista e, quindi, il direttore responsabile della testata giornalistica non sarebbero effettivamente dissuasi dal non pubblicare articoli di stampa diffamatori, considerato che la pena detentiva prevista dalla legge italiana per tale condotta criminosa comunque non sarebbe a loro applicabile in concreto, perche’, secondo la giurisprudenza Edu, considerata sempre sproporzionata e come tale «non necessaria in una societa’ democratica», in quanto eccessivamente limitativa della fondamentale liberta’ di espressione garantita dall’art. 10 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle liberta’ fondamentali e dall’art. 21 della Costituzione.
Per tutti i motivi sopra esposti, in conclusione, secondo il Tribunale, deve essere sollevata la questione di legittimita’ costituzionale degli articoli 595, comma 3, codice penale e 13 della legge 8 febbraio 1948, n. 47, come indicato in dispositivo.
P.Q.M.
Visti gli art. 23 della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 159, comma 1, del codice penale, solleva la questione di legittimità costituzionale degli articoli 595, comma 3, codice penale e 13 della legge 8 febbraio 1948, n. 47, perché in violazione degli articoli 3, 21, 25, 27 della Costituzione, nonche’ dell’art. 117, comma 1 della Costituzione in relazione all’art. 10 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà, per le ragioni di cui in motivazione;
Dispone l’immediata trasmissione degli atti processuali alla Corte costituzionale;
Dispone la sospensione del procedimento penale e dichiara sospesi i termini di prescrizione come per legge;
Ordina la notificazione della presente ordinanza, letta alle parti in udienza, al Presidente del Consiglio dei ministri, al Presidente del Senato della Repubblica ed al Presidente della Camera dei deputati;
Manda alla cancelleria per gli adempimenti.
Salerno, 9 aprile 2019
Il Giudice: Rossi
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