di Romano Bartoloni
Cambiano volti, fisonomie e destinazioni che hanno caratterizzato la vita e la storia del centro dall’avvento della capitale d’Italia ai nostri giorni. Da piazza Navona a piazza Colonna, dal Collegio Romano a piazza San Silvestro, dal Corso a Fontana di Trevi e su su per il Tritone fino a via Barberini, il Palazzo per eccellenza si sta allargando a macchia d’olio, snaturando la romanità dei rioni e costruendo giorno dopo giorno un universo a propria immagine e somiglianza. Ad una ad una cadono nelle braccia del potere pubblico le teste blasonate. Nel giro di pochi anni, hanno ceduto le armi, palazzi prestigiosi, conventi, perle di chiostri, alberghi, vecchie glorie di negozi.
I palazzi S. Macuto e Marini in via del Pozzetto, Valdina, Teodoli, Seminario, Raggi, e ancora nell’intera area del Pantheon (da via della Maddalena a piazza Sant’Eustachio, da via della Dogana Vecchia a via del Seminario), e poi a Campo Marzio e in piazza del Parlamento l’ex Banco di Napoli e l’ex Banco di Santo Spirito, e, non da ultimo, inglobando il gioiello architettonico della galleria Sciarra (“di valore immenso e oggi declassato per uffici secondari della presidenza del Consiglio, null’altro che ingombranti”, scrive Felice Borsato nel suo libro di nostalgie giornalistiche “Terza pagina, il Giornale d’Italia”). Altri colpi grossi sono maturati o stanno per maturare: la Galleria Colonna, la Rinascente, i palazzi delle Poste in via Due Macelli fino a piazza San Silvestro, palazzo Wedekind, lo storico complesso di piazza Colonna che ospita il giornale “Il Tempo” fin dalla fondazione. E sulla carta le voglie di conquista sono senza fine.
A furia di colpi grossi, comunque, di colpi di mano, e del parallello moltiplicarsi delle esigenze di sicurezza, il centro si sta trasformando in una cittadella fortificata e presidiata, subìsce una mutazione genetica sotto le mire espansionistiche degli uffici del governo, del Parlamento (in barba alle promesse di riduzione del numero dei parlamentari), dei ministeri (radicatisi contro natura e decentramento urbanistico); tutte teste di ponte per le ambizioni presenzialiste di partiti, banche, finanziarie, assicurazioni, lobby, per finire alle multinazionali del market e della ristorazione. E gli effetti dell’espansione incontrollata sono esplosivi. Sotto la pioggia del denaro pubblico per acquisti e restauri di così grande valore, non più bilanciato e regolato da un rapporto di giusti equilibri fra domanda ed offerta, il mercato del mattone è scoppiato come un bubbone. Il caro-affitti delle case e dei negozi, con la conseguente spirale sugli altri prezzi, riduce al lastrico o sfratta i pochi residenti sopravvissuti, ma, soprattutto, espelle artigiani e commercianti, cioè le botteghe storiche di interi rioni (clamorosi i recenti casi, dall’assalto al bar Vanni di via Frattina all’arrivo dell’ennesimo Pastarito in via IV Novembre). Se la desertificazione del centro rafforza il dominio della classe padrona, si amplificano i disagi e il senso di emarginazione dei romani e dei loro ospiti, si mortifica l’economia turistica.
Insomma, il Palazzo delle istituzioni e della burocrazia sta mettendo con le spalle al muro il Campidoglio, e la stessa Provincia, che stanno tentando l’impossibile per difendere l’identità sempre più compromessa del centro storico. Persino il Comune ha pensato di smobilitare lasciando il palazzo Senatorio alla sua vocazione museale.
Pietra su pietra, giorno dopo giorno, si realizza, anche al di là delle intenzioni, la città proibita dei mandarini. Sarà anche inevitabile che, dopo l’11 settembre, le ragioni di sicurezza abbiano un prezzo, ma blindare, come si annuncia le strade dei ministeri-obiettivi sensibili sembra non solo un’esagerazione, ma anche un affronto nei riguardi dei romani già condannati senza risarcimento al perenne, umiliante e dispendioso disagio dovuti ai cortei e alle visite dei personaggi illustri. Peraltro, le barriere ricordano i brutti tempi dell’occupazione nazista, quando intere strade erano svuotate e rese invalicabili dai cavalli di frisia e dalle milizie armate. Forse proclamare off limit il ministero dell’Interno o la Farnesina potrebbe essere logisticamente possibile, ma transennare e interdire ai pedoni persino i marciapiedi di via XX Settembre, dove sorgono uno di fronte all’altro, il ministero della Difesa e il palazzo dello stato maggiore, significherebbe istituire il coprifuoco e condannare una zona nevralgica della città a una vita di stato d’assedio. Già oggi si soffre un’ingombrante presenza militarizzata che, fra l’altro, espone a rischio la salute pubblica con l’elettrosmog della selva di mega-antenne e di super-parabole, spuntate come funghi sui tetti e sulle terrazze ministeriali. Piuttosto perchè non cogliere l’occasione di una così importante e delicata strategia della sicurezza per traslocare finalmente in periferia la burocrazia militare? Da decenni, il loro posto è altrove sulla carta dei piani regolatori della città. Più volte, i governi si sono impegnati a parole a rispettare le regole urbanistiche e a realizzare altri centri direzionali, come l’Eur, per la dislocazione dei dicasteri-chiave.
L’Esposizione universale romana (Eur) era stata realizzata dagli urbanisti d’epoca fascista oltre i confini della Garbatella, la periferia di allora. Una soluzione che suggerì al sindaco Rebecchini, nel 1954, l’idea di fondare una “città degli uffici” all’esterno della cerchia urbana. Il piano regolatore di Luigi Piccinato (1962) scelse il quadrante est, la zona compresa fra Tiburtino, Pietralata, Casilino e Centocelle per realizzare il centro direzionale orientale (Sdo). Lo scopo principale era quello di liberare la Roma storica dal peso di tanti ministeri, ma anche di spingere fuori porta il maggior numero di uffici pubblici con le loro decine di migliaia di impiegati, fra l’altro, una delle cause finora inamovibili della morsa di traffico nel cuore della capitale. Scrive autorevolmente l’editorialista Giuseppe Pullara sulla cronaca del “Corriere della Sera” del 3 marzo scorso: “Di solito la pianificazione urbanistica, frutto di studi di oscuri uffici municipali ma anche di menti illuminate, è stata combattuta dagli abusivi: in questo caso, sono le massime istituzioni dello Stato ad andare “controcorrente”. Applicando una logica del tutto contraria allo svuotamento del centro storico dai “pesi” istituzionali, Camera. Senato e palazzo Chigi diffondono i loro uffici a macchia d’olio nella parte più pregiata della capitale”. E conclude desolato: “Anno dopo anno, il centro è stato svuotato non da speculatori immobiliari ma da rappresentanti dello Stato”.
Purtroppo, sorprende che valorosi urbanisti e cultori di cose romane che conoscono vita, morte e miracoli di ogni pietra della città, non battano ciglio di fronte alla sistematica, progressiva occupazione del centro storico da parte del Palazzo e dintorni. Ci si chiede cosa si aspetta a lanciare una campagna di stampa che rompa il muro dei silenzi e delle omertà e che susciti la reazione, l’indignazione e la levata di scudi delle forze più sensibili del Paese? Sarebbe ora di restituire vita, fiato, tradizioni e dignità, e perché no! anche sicurezza, al centro storico della capitale.