IL BAVAGLIO AI CRONISTI

Dietro le intimidazioni di certe Procure, dietro la pretesa della violazione del segreto d’ufficio, l’ex segreto istruttorio che dovrebbe essere concesso solo in casi eccezionali secondo le norme del nuovo codice di procedura penale, si nascondono ben altri intenti che nulla hanno a che vedere con la tutela delle indagini e dell’indagato. In realtà, si vuole scoraggiare il cronista a fare il suo mestiere di cacciatore di notizie; costringerlo a denunciare e svelare le sue fonti confidenziali di informazione (insomma di fare nome e cognome del magistrato che gli ha passato l’indiscrezione) facendolo rinunciare, con le buone o con le cattive, alla copertura del segreto professionale garantito dalla legge; spezzare i fili del rapporto fiduciario con le fonti, essenziale per un’informazione completa e corretta, e al cui rispetto si è tenuti secondo la legge sull’Ordine professionale.
Quale il fine ultimo di questi sistematici, mirati, e ormai quasi quotidiani, attacchi (perquisizioni persino nelle case di vacanza, fermi di polizia, snervanti interrogatori, sequestro di taccuini, cd, archivi, telefonini ecc.)? Regolare il rubinetto dell’informazione ad arbitrio mediante la censura, le veline, il bavaglio, la minculpop. Magistratura e politica sembrano ai ferri corti su tutto, ma nei fatti sono alleate quando si tratta di legare le mani alla stampa e di spillare facili quattrini con le quereli facili (singolarmente le cause di risarcimento marciano rapide per i magistrati querelanti). In Parlamento è arrivato un ddl dell’on. Mario Landolfi di AN che propone l’introduzione dell’ufficio stampa nelle Procure. Bene, direte voi! Sì, ma prevede anche che il giornalista, il quale, invece di pubblicare tale e quale il comunicato-velina, faccia di testa sua, incorra addirittura nei rigori della legge. E c’è di più! Da due legislature in commissione giustizia alla Camera, si cuce e si scuce la tela di Penelope della riforma del reato di diffamazione. In realtà, non c’è alcuna voglia di fare sul serio, perché si dovrebbe rinunciare alle querele facili bloccandole con la rettifica obbligatoria e in evidenza, e perché si cambierebbe l’art. 200 del codice penale sul segreto professionale. Una norma ereditata dal regime fascista (codice Rocco) che riconosce a tutto tondo il segreto degli avvocati, dei medici e delle levatrici, e condiziona, soltanto quello dei cronisti!, ai capricci del giudice.
Probabilmente è colpa nostra se, a cominciare dall’Ordine e dalla Federazione della stampa, non riusciamo a farci prendere sul serio dal Palazzo. In questi giorni, l’Unione nazionale cronisti italiani si è appellata, per l’ennesima volta e invano, al Consiglio superiore della magistratura “giustamente sempre sensibile e reattivo nei confronti dell’invadenza della sfera politica – come è stato scritto nel comunicato inviato anche al Capo dello Stato nella sua veste di presidente del CSM – e viceversa sistematicamente sordo quando tra le sue file certa magistratura mette in gioco la libertà di stampa con comportamenti ingiustificabili”.

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