Al palo la finta riforma della diffamazione

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In questi giorni marcia a passi di gambero la cosiddetta riforma della diffamazione (ddl 1119-B) in commissione giustizia al Senato dal settembre 2015, tradendo un paralizzante vizio liberticida che ha impedito in oltre 20 anni di tentativi di cambiare le regole della legge sulla stampa del 1948 e che, benché vecchie e marcite, appaiono meno pericolose delle tante velleità di aggiustamenti rincorse finora. Dopo due anni e mezzo di balletti fra i due rami parlamentari, l’ultima versione rivela come sia cervellotico trovare un compromesso fra il bastone e la carota sulla pelle dei cronisti. 
Da una parte si promette di eliminare con una furbesca operazione di facciata il carcere per il giornalista, ma non si depenalizza il reato e si prospettano in alternativa multe salate fino a 60mila euro, sanzioni sproporzionate e intimidatorie quanto e forse più pesanti della galera specie in tempi di paghe magre e di editori Ponzio Pilato. Dall’altra, si ignora o si finge di ignorare la potenza censoria delle querele temerarie e pretestuose con richieste esorbitanti di risarcimento danni, cercando di ridurre a livelli risibili (1.000/10.000 euro) l’indennizzo al giornalista trascinato in cause infondate (il 90% del totale) a fronteggiare pretese milionarie. 
Se la discordia parlamentare continuerà a trascinare il ddl per le lunghe, rischiando di bruciarlo ancora una volta con l’avvicinarsi della fine della legislatura, tanto vale abbandonarlo al suo destino da subito come si invoca da più parti. Nel caso si intendesse andare avanti comunque, ci permettiamo di ricordare che un pluriennale dibattito tra i cronisti ha fornito tre indicazioni di base: la rettifica commentata per scongiurare le bugie grossolane; il risarcimento ai giornalisti per le querele temerarie (prendendo spunto dalla lite temeraria già prevista dai codici); privacy quasi zero per amministratori pubblici di ogni livello per ragioni sociali, etiche e di trasparenza politica. (21/01/2017)