L’immigrazione ieri, oggi, domani
di Corrado Giustiniani*
L’inizio della storia dell’immigrazione in Italia pare avvolto nel velo di Maja che impedisce di cogliere l’essenza del reale, come nell’antica credenza indiana. Ci sono contorni sfocati e percezioni attutite, per la più sorprendente rivoluzione che abbia investito l’Italia repubblicana: il passaggio quasi improvviso da paese d’emigrazione a terra d’arrivi fra le più importanti d’Europa. Flussi tanto intensi che alla fine del 2014 gli stranieri regolari avevano toccato quota 5 milioni. Da allora in poi, però, a dispetto delle paure che ci sono state indotte, il loro numero si è stabilizzato.
Secondo l’ultimo Rapporto Idos, presentato poco più di due mesi fa, alla fine del 2017 i residenti erano infatti 5 milioni e 144 mila, l’8,5 per cento della popolazione. Poi ci sono da considerare gli irregolari. L’Istituto di ricerca che ho citato non si è mai cimentato in una stima del genere, che è complicatissima, ma un numero che ricorre spesso è quello di 500 mila.
Ma come è potuto accadere tutto questo? Chi se ne è accorto? Quando e da dove sono arrivati i primi immigrati?
Sull’anno esatto della svolta vi sono dubbi e discussioni. Per comodità di ragionamento c’è chi sceglie il 1976. Perché consente il riferimento al 1876, anno della prima rilevazione ufficiale sugli espatri, e il conseguente conteggio che, nell’arco di un secolo, hanno lasciato la penisola qualcosa come 26 milioni di italiani. Questo ha portato il ministero degli Esteri a stimare che nel mondo esistano 58 milioni e mezzo di oriundi italiani, e cioè figli, nipoti, pronipoti di italiani che poi hanno acquisito una cittadinanza straniera. C’è insomma, nel mondo, un’altra Italia oltre a quella delimitata dai confini della nostra penisola.
Un’autentica diaspora che oggi sembriamo avere del tutto rimosso. Indirizzata prevalentemente verso le Americhe tra la fine dell’Ottocento e i primi decenni del Novecento, e verso l’Europa dopo la seconda guerra mondiale. Era uno strappo netto con il passato, quello di tanti nostri nonni, bisnonni e trisavoli. Voglio ricordare qui soltanto il titolo di una raccolta di poesie del missionario trentino Claudio Nereo Pellegrini, trasferitosi in Belgio per assistere i nostri minatori e diventato così prete operaio: “Ovunque vivere altrove”. In qualsiasi posto della terra l’immigrato sia, la sua testa, i suoi sentimenti, sono altrove.
Ci sono differenze, fra migranti di oggi e i nostri di allora. Il livello di istruzione per esempio: i nostri erano molto spesso analfabeti, quelli venuti a risiedere in Italia è raro che abbiano un titolo inferiore alla terza media, nel 40 per cento dei casi hanno un diploma delle superiori e nel dieci su cento sono laureati. Livello di istruzione molto simile a quello della nostra popolazione attuale. Altra osservazione: i nostri emigrati storici erano in prevalenza maschi, mentre oggi, tra gli immigrati in Italia, c’è una leggera prevalenza femminile (il 52 per cento). Un terzo aspetto, il loro era uno stacco netto con la terra lontana: non avevano nemmeno il telefonino per mantenere un contatto.
C’è poi una differenza che qualcuno vorrebbe rimarcare a vantaggio dei migranti di un tempo rispetto agli immigrati di oggi. I nostri non sarebbero stati mai clandestini, perché si muovevano su chiamata dei governi degli altri Paesi, quelli di oggi, invece sì. Tutto questo viene confutato da Gian Antonio Stella, protagonista di un viaggio nel nostro passato migratorio con il saggio “L’Orda”, che ha appassionato e sconvolto i lettori. Stella tra l’altro documenta come fossimo noi gli “albanesi” di allora, considerati ladri di posti di lavoro, criminali, venditori di bambini, sfruttatori di prostitute e, per l’appunto, clandestini. Centinaia di migliaia di clandestini: anche nelle navi che a fine ‘800 raggiungevano l’America, per scaricare i passeggeri in quarantena a Ellis Island. Secondo lo storico Ruggero Romano, all’elenco dei passeggeri ufficiali andava aggiunto un numero almeno equivalente di irregolari. In Europa, è vero, gli emigrati italiani si muovevano su chiamata, ma questo solo verso il Belgio, con l’accordo “Minatore carbone” del 1946, e verso la Germania, con la quale il nostro governo stipulò un’altra intesa undici anni dopo, nel 1955. Ma sono molti i nostri clandestini finiti in Francia e in Svizzera. E chiudiamo qui questa parentesi sull’emigrazione italiana nel mondo. Un flusso in uscita, come vedremo più tardi, che si è bruscamente riattivato.
L’inversione di segno fra esodi e arrivi dall’estero, in realtà, sarebbe avvenuta quattro anni prima del 1976, nel 1972, con un saldo positivo di 14 mila arrivi, secondo uno studio del professor Francesco Natale dell’Università di Roma la Sapienza. Se questi dati sono veri siamo ormai vicini ai 50 anni di immigrazione, e il dato sembra incredibile. Se invece teniamo per buono il 1976, abbiamo superato abbondantemente i 40 anni, e si tratta in ogni caso di un fenomeno molto consolidato
Ma dove venivano i primi stranieri immigrati in Italia negli anni ‘70? E dove si sono fermati, forse nelle ricche regioni del Nord e del Nord Est, allora in cerca di manodopera? Niente di tutto questo. Qualcuno di voi non ci crederà, ma i protagonisti del primo ciclo di arrivi sono stati i pescatori tunisini di Mazara del Vallo. Molti anni fa, recandomi come inviato del Messaggero a Mazara, mi fermai a parlare con uno di loro. Si chiamava BAZINE HACHEMI, e in quell’incontro ebbi l’impressione di avere davanti a me un uomo che aveva precorso la storia. Bazine parlava con cadenza siciliana, muovendo le grandi mani sciupate dalle reti, dal sale e dal freddo. Decise di lasciare Tunisi, per cercare fortuna in Sicilia, nel 1969, l’anno dell’«autunno caldo» e delle grandi lotte operaie, lavorando prima come fabbro nell’entroterra, a Castelvetrano, poi sul mare, come pescatore. Già cinquant’anni fa dunque, in una Sicilia ancora più arretrata economicamente di oggi, i ragazzi non volevano più fare il mestiere dei loro padri. Oggi i tunisini a Mazara sono 3 mila, i due terzi dei quali addetti appunto alla pesca. Senza di loro la ricca flotta di pescherecci sarebbe in panne, e in fumo il business di armatori, grossisti, pescivendoli e ristoratori. E senza stranieri non potremmo più produrre il parmigiano Reggiano, vini famosi e tante altre preziose derrate del made in Italy.
Prima della svolta migratoria, avevamo avuto certamente altri gruppi stranieri che si erano stabiliti nel nostro Paese. La comunità più antica è quella cinese: le sue avanguardie sono giunte fra di noi a cavallo fra le due guerre e almeno in parte provenivano dalla Francia, dove i cinesi erano emigrati per sostituire in fabbrica i soldati impegnati al fronte durante il primo conflitto mondiale. Il nucleo storico si insediò a Milano, nel cuore del vecchio quartiere Sempione, dando vita alla prima piccola chinatown italiana. Fra il 1930 e il 1940 i cinesi arrivarono anche a Roma, occupando gli scantinati attorno a piazza Vittorio. Lavoravano cuoio e pellame e producevano cravatte che poi andavano a vendere per le strade: «Tle clavatte, una lila» era la celebre frase con cui affrontavano i passanti. I cinesi, sono arrivati, possiamo ben dire, prima che la storia dell’immigrazione in Italia iniziasse.
Ma, come ho detto, è con gli arrivi dei primi anni Settanta che si assiste in Italia all’inversione del ciclo migratorio. Ed è sorprendente che questo sia avvenuto in provincia di Trapani, a 82 miglia dalla costa africana. I tunisini di Mazara, periferici, separati, con il loro lavoro lontano dalla terraferma, sono dunque il simbolo di come sia iniziata l’immigrazione nel nostro paese: senza dare nell’occhio. Gli arrivi sono sparsi e per così dire silenziosi. La destinazione lavorativa non è ancora la grande fabbrica, ma sono luoghi alquanto appartati. Le mura domestiche, ad esempio. Fra l’inizio e la metà degli anni Settanta giungono nelle abitazioni delle famiglie agiate di Roma, di Milano e di Torino le prime colf di colore. Erano sempre di meno, infatti, le italiane disposte a servire in casa, a tener compagnia agli anziani e a occuparsi dei bambini piccoli.
Il canale che porta in Italia queste donne, in un primo momento, è soprattutto religioso. Provengono dalle Filippine e da Capo Verde, più tardi da El Salvador, dall’Ecuador, dal Perù. Si sono rivolte a missioni cattoliche che operano nel loro paese e sono arrivate appoggiandosi alle sedi centrali di questi istituti, in prevalenza di suore. Alla fine degli anni Settanta, secondo una stima raccolta dal Censis, le colf immigrate erano già 100 mila. (Oggi tra colf e badanti regolari e irregolari se ne contano 2 milioni, il 77 per cento straniere le badanti, il 48 per cento le colf, secondo una stima de lavoce.info. le irregolari sono il 60 per cento)
Egualmente appartati altri luoghi di lavoro, come i campi del Casertano o del Foggiano, così lontani dalle città, dove gli stranieri iniziano a raccogliere i pomodori. Questa attività, che durava (e dura) appena due mesi all’anno, luglio e agosto, con ritmi di lavoro di 10-15 ore al giorno, dall’alba al tramonto, avrà la sua esplosione negli anni Ottanta ed è fiorentissima, con situazioni di sfruttamento schiavistico, anche oggi. Quello che però forse vi incuriosirà è che a praticarla, agli inizi, erano spesso studenti universitari che avevano finito i soldi spediti loro dai genitori africani o sudamericani per mantenersi agli studi in Italia, e così approfittavano della pausa estiva degli esami per incrementare le proprie entrate.
È per questo che siamo stati colti di sorpresa, che non abbiamo avuto una percezione immediata di quanto stesse accadendo attorno a noi. Certo, facevano capolino anche personaggi coreografici e colorati, come i venditori di stoffe e di oggetti in pelle, ma non ci davano l’impressione di una pacifica invasione. Anzi, vederli sulle spiagge trascinarsi dietro il grande sacco da cui spuntavano tutte le loro mercanzie variopinte, e ripartire dopo una lunga trattativa, come se fossero appena arrivati da un porto maghrebino e dovessero tornare indietro a rifornirsi ancora, rafforzava l’aspetto esotico di quella presenza, e la collocava distante da noi.
C’è comunque un evento che pone l’Italia al centro delle correnti migratorie, ed è la crisi petrolifera del 1973, causata dalla guerra tra arabi e israeliani, che provoca una recessione in tutta Europa. Fra di voi ci sarà chi ricorda le domeniche a piedi, l’austerity. Gli altri Paesi chiudono le porte agli stranieri, per difendere i loro posti di lavoro, l’Italia non lo fa, perché vive di turismo e perché l’unico flusso che ha conosciuto finora è in uscita. Così gli immigrati aumentano. Erano 300 mila alla fine degli anni ‘70, 800 mila alla fine degli anni ‘90, e nel 2001 saliamo a 1 milione e 400 mila, secondo le stime che effettuò il Dossier Caritas, mentre nel 2005 si sfonderà il tetto di 3 milioni di regolari.
Ma attenzione: fin dagli anni ’70, anche nelle fabbriche stava cambiando qualcosa e non ce ne siamo accorti. Feci delle ricerche d’archivio e su una rivista di nicchia, “Vita Nuova”, scoprii che nel 1977 la Fiat aveva assunto 55 egiziani alle fonderie di Modena. Altri 250 facevano gli operai a Reggio Emilia, 200 turchi ai forni delle fonderie Gallinari. E’ l’inizio di una richiesta sempre più intensa di stranieri da parte delle piccole, medie e grandi imprese, su cui per ora Confindustria e sindacati mettono il silenziatore, ma che esploderà negli anni ‘80 e ‘90.
L’omicidio di Jerry Masslo
Vorrei ora raccontarvi un episodio di grande rilievo e di grande forza simbolica, che vi mostrerà come sia profondamente cambiato l’atteggiamento degli italiani nei confronti degli stranieri da allora ad oggi. L’anno è il 1989, il giorno è il 24 di agosto. A Villa Literno, nei pressi di Aversa, viene assassinato Jerry Essan Maslo, un rifugiato politico scappato due anni prima dal Sudafrica dell’apartheid. Nelson Mandela, ricordiamo, solo nel 1991 sarà liberato dopo 27 anni di carcere, e nel 1994 diventerà presidente del Sudafrica.
Jerry dorme in una masseria isolata nella campagna, assieme ad altri trenta immigrati. Tre balordi entrano, armati, per rapinarli dei poveri risparmi. Jerry si lancia verso di loro, per cercare di fermarli, ma viene colpito in pieno. Negli scontri razziali, in Sudafrica, aveva perso il padre e una figlia di sette anni, e vi aveva lasciato la moglie e altri due figli. In realtà tecnicamente non era un rifugiato, perché l’Italia allora garantiva questo status soltanto a chi provenisse dai paesi dell’Est: più semplicemente, godeva della tutela di Amnesty International. Proprio nell’anno in cui Jerry moriva, il 1989, la “legge Martelli” avrebbe superato la riserva geografica sui rifugiati.
Pensate che il 30 agosto i funerali di Masslo furono trasmessi in diretta dalla Rai, e vi parteciparono le più alte autorità dello Stato. La magistratura fece il suo dovere in tempi straordinariamente rapidi e condannò a 22 anni di reclusione i tre autori dell’omicidio, tutti originari del posto. Ma non è finita. Dopo l’estate, la mobilitazione straordinaria per la morte di Masslo culminò nella più grande manifestazione contro il razzismo che sia mai stata attuata in Italia. Il 7 ottobre 1989, 200 mila persone secondo gli organizzatori, 100 mila secondo la polizia, sfilarono a Roma da Piazza della Repubblica a piazza del Popolo, con tre parole d’ordine, “per i diritti degli immigrati”, “per l’uguaglianza” “per una società multietnica e multiculturale”. La regia era di Cgil-Cisl-Uil, i comizi finali di Trentin e Bentivogli. I primi del corteo erano già a Piazza del Popolo, quando gli ultimi dovevano ancora partire da Piazza della Repubblica. Venivano innalzati i ritratti di Martin Luther King e di Nelson Mandela. “Con loro contro il razzismo” si leggeva su molti cartelli e alla manifestazione partecipò niente meno che il campione olimpico Tommy Smith, la medaglia d’oro che a Città del Messico aveva salutato il popolo col pugno chiuso. Ho dedicato tanto a questo episodio, perché mi sembra quasi incredibile che l’Italia oggi sia scivolata così in basso.
Gli albanesi e il Vlora
C’è un secondo evento emblematico, che in questa descrizione per forza di cose impressionistica della nostra storia immigratoria, vorrei segnalare. Lo sbarco nel marzo del 1991 sulle coste pugliesi di 24 mila albanesi. Come Masslo era in fuga dall’apartheid, loro lo sono da un paese economicamente disfatto, dopo 45 anni di dittatura comunista. E questi vennero accolti. Ma l’8 agosto di quell’anno attracca nel porto di Bari il piroscafo albanese Vlora, con un carico di 11 mila profughi, secondo i giornali dell’epoca, addirittura di 20 mila, secondo ricostruzioni successive. Un grappolo umano galleggiante, immortalato da fotografie che hanno fatto il giro del mondo. A differenza dei connazionali sbarcati a marzo, i passeggeri del Vlora vennero prima dirottati verso il vecchio stadio Della Vittoria, dove scoppiò la guerriglia, infine rimpatriati con 11 aerei militari e diverse motonavi, per decisione del governo Andreotti, dal momento che non c’erano più possibilità di accoglienza nel nostro Paese.
Ho voluto ricordare il Vlora perché quelle foto che ho citato, e che sicuramente vi è capitato di vedere, hanno alimentato una sorta di sindrome d’assedio. E avvertiva questa sindrome certamente il Parlamento italiano nel 1992, quando approvava una legge sulla cittadinanza, tuttora in vigore, rigidamente impostata sullo ius sanguinis, e particolarmente severa con i figli di immigrati nati nel nostro paese, che per diventare italiani devono aver trascorso ininterrottamente da noi i primi 18 anni di vita, legge che era stata riformata dal primo ramo del Parlamento, ma malauguratamente abbandonata dal Pd, lo scorso anno, al Senato. Visto che parliamo di leggi, nel 1998 verrà approvata la Turco-Napolitano, che fissò un sistema di quote, tuttora in vigore, per essere assunti nominativamente in Italia, ma lasciava anche la possibilità di entrare da noi senza un contratto già in tasca, ma con un permesso di ricerca di lavoro, finanziato da uno sponsor. Inoltre si introduceva “la carta di soggiorno”, un permesso permanente che si può ottenere dopo cinque anni di soggiorno regolare. Il canale che dava la possibilità di entrare per la ricerca di lavoro veniva eliminato, nel 2002, dalla legge 189 del governo Berlusconi, meglio conosciuta come Bossi-Fini, tutta permeata da un concetto di “immigrazione corta”: vieni, lavori e te ne vai. Ma per forza di cose, proprio questa legge doveva varare la più grande regolarizzazione della nostra storia, con 700 mila domande di sanatoria, per il 90 per cento accolte.
Di sanatorie, fino ad oggi, ne sono state varate sette, e ve ne sarebbe bisogno di una anche adesso, per asciugare il bacino di irregolari che si è formato. E perché c’è bisogno di sanatorie? Perché il sistema delle quote e del decreto flussi, prescrive che si debba entrare in Italia già con un contratto di lavoro in tasca. Voi ce lo vedete un piccolo imprenditore che assume un operaio che non ha mai visto all’opera, o una famiglia che assume una badante dalla Moldavia o dall’Ucraina sulla base di una foto postata di Internet? E’ accaduto così che queste norme siano state sempre aggirate. Il sistema più usato è stato quello di entrare in Italia con un permesso per turismo della durata di tre mesi, tempo in cui cerchi irregolarmente un lavoro, e se non lo trovi ti trattieni di più, diventi overstayer, come si dice. Quando hai l’ok del datore di lavoro, lasci alla chetichella l’Italia, e poi ci torni in pompa magna, con tanto di visto del nostro consolato e contratto in mano. E’ naturale che in questo modo così arzigogolato si formi un bacino di cosiddetti clandestini, con la necessità di regolarizzarli. Ma non sembra proprio, questo, il momento giusto: meglio tenersi i clandestini, che servono ad alimentare un senso di insicurezza creato ad arte da gestire con successo alle prossime elezioni europee.
Così come vi sarebbe bisogno di nuove quote di ingresso regolare, attraverso un decreto flussi: è dal 2013-2014 che gli ingressi regolari di lavoratori dipendenti a tempo indeterminato sono sostanzialmente bloccati.
Dal 2011 però gli arrivi, anziché via terra o via aerea con permesso turistico, come era stato in prevalenza nei decenni precedenti, sono venuti via mare senza permesso turistico. E’ accaduto dopo la cosiddetta “primavera araba”, che primavera non è stata affatto.
Identikit dell’immigrato all’italiana e la sua percezione distorta
Tre caratteristiche distinguono gli immigrati in Italia rispetto a quelli degli altri Paesi: intanto l’estrema varietà delle provenienze, circa 200 come abbiamo visto nel filmato, un autentico policentrismo geografico. La comunità più numerosa è la romena, con circa 1 milone e 200 mila fra donne e uomini, seguita da quella albanese, e poi i marocchini, i cinesi, gli ucraini, i filippini e tutti gli altri. Non è così ad esempio in Francia, dove c’è una netta prevalenza di poche nazionalità nordafricane: algerini, tunisini, marocchini.
La seconda caratteristica è una quota di lavoro alle dipendenze delle famiglie nettamente superiore rispetto agli altri Paesi. E se si chiude il rubinetto delle colf e delle badanti, le famiglie italiane, che non hanno adeguati servizi alternativi, vanno in tilt. E’ per questa seconda peculiarità che le donne immigrate sono in Italia leggermente prevalenti (52 per cento secondo Idos) rispetto ai maschi, con dei casi limite come l’Ucraina, da cui provengono come sappiamo molte badanti, e la componente femminile arriva al 78 per cento.
La terza caratteristica è la prevalenza della religione cristiana, con il 52,6 per cento (anche se poi gli ortodossi sono superiori ai cattolici). I musulmani, a dispetto della percezione distorta degli italiani, sono poco meno di un terzo.
E parliamo allora di questa percezione distorta. Intanto, stranieri o non stranieri, la società italiana vive in uno stato di allarme e di insicurezza che i dati generali sulla delittuosità, diffusi con questo nome dallo stesso ministero dell’Interno, non giustificano affatto. Nel 2017, ci sono state infatti 2 milioni e 236 mila denunce, il dato più basso degli ultimi dieci anni. Nel 2013, per avere un termine di paragone, le denunce erano state cinquecentomila in più. Questo dato è passato nell’ombra: non ne hanno parlato i politici, nemmeno quelli attualmente all’opposizione e ne hanno parlato molto poco i giornali e le televisioni. Il paradosso italiano è dunque questo, si commettono meno delitti e si ha più paura.
All’interno di questi numeri tranquillizzanti conta certamente molto che, con riferimento circoscritto alle denunce con autore noto, gli stranieri siano sovresposti, con il 29 per cento a loro carico, mentre come sappiamo sono molti di meno rispetto alla popolazione complessiva. C’è però da dire, primo, che dal 2005 i dati Istat-ministero dell’Interno non distinguono più tra stranieri non residenti e residenti (questi ultimi avevano molte meno denunce) secondo, che mettono tutti i reati insieme, mentre una quota di questi (soggiorno irregolare ecc.) possono essere commessi solo da stranieri, terzo che la popolazione straniera è molto più giovane, e la gran parte dei delitti si commettono nella fascia d’età fino a 50 anni. Tutto ciò senza voler minimizzare, naturalmente, il problema.
Ma che gli italiani abbiano una percezione amplificata e distorta dell’immigrazione, sono diversi altri dati a provarlo. Una ricerca della Fondazione Cattaneo ha verificato che, secondo i nostri concittadini, gli immigrati in Italia sarebbero il 25 per cento della popolazione, quindi il triplo di quanto non siano realmente. Anche negli altri Paesi la gente tende a maggiorare il numero degli stranieri effettivamente presenti, ma la percezione distorta degli italiani non ha termini di confronto.
Pure sui musulmani, vediamo doppio o addirittura triplo. Secondo un sondaggio dell’Eurispes, è il 70 per cento degli italiani a sovrastimarne il numero. I fedeli di Allah in Italia, fra stranieri e naturalizzati italiani, sono 2 milioni e mezzo, ovvero il 4 per cento circa della popolazione. Ma, secondo il 30 per cento degli italiani, sono il triplo, secondo uno su quattro sono cinque volte più numerosi, e secondo un intervistato su cinque, sarebbero addirittura il 24 per cento della popolazione.
Gli sbarchi
Per quanto riguarda gli immigrati che arrivano via mare, e in particolare i richiedenti asilo e quanti hanno già ottenuto la protezione internazionale o la qualifica di rifugiato, anche qui non siamo sotto assedio, come si può pensare accendendo la televisione a leggendo che il governo ha varato un decreto legge, dunque che la questione è più che mai urgente. L’Unhcr, l’agenzia dell’Onu per i rifugiati, stima che in tutto, fra chi chiede e chi ha ottenuto un titolo, vi sarebbero 350 mila persone, pari allo 0,6 per cento della popolazione, un dato in linea con gli altri Paesi.
Gli sbarchi hanno avuto un’impennata dopo la primavera araba. Ricorderete certamente la tragedia di Lampedusa del 3 ottobre 2013, con 368 morti, in gran parte eritrei, e la missione di salvataggio chiamata “Mare Nostrum” lanciata immediatamente dopo dal governo Letta. A questa però, Italia ed Europa hanno preferito sostituire nel 2014 una missione di vigilanza dei confini, chiamata Frontex. Nel 2017 il governo Gentiloni, con il ministro dell’Interno Marco Minniti come protagonista, ha varato un codice di comportamento che di fatto ostacola l’attività di soccorso in mare delle Ong e ha siglato un accordo con un pezzo del governo libico, quello rappresentato da Al Sarraj (poi c’è il generale Haftar, ma il territorio libico è in mano a incontrollabili bande armate) donando tra l’altro delle motovedette alla locale Guardia costiera con il compito di intercettare e riportare in Libia gli occupanti dei barconi, senza distinguere tra richiedenti asilo e migranti economici.
Gli sbarchi così si sono drasticamente ridotti, da 173 mila del 2016 a 117 mila del 2017, a poco più di 20 mila nel 2018. Minniti infatti ha alzato la palla a Salvini, come si direbbe in gergo pallavolistico, e questi ha schiacciato, rinsaldando gli accordi con i libici e chiudendo i nostri porti agli sbarchi. Si calcola che finora 15 mila migranti che volevano raggiungere l’Italia, siano stati riportati indietro, tornando nei campi degli stupri e delle torture da cui erano fuggiti. Nello stesso tempo, però, sono aumentati i morti nel Mediterraneo, oltre 2.000 nel corso del 2018. Fra chi fugge cercando di raggiungere l’Europa vi sono anche molti migranti economici, ma è certo che chi avrebbe comunque diritto alla protezione internazionale, non può più farlo valere, in barba alla Convenzione di Ginevra del 1952. La Libia non la riconosce e l’Unhcr non può agire liberamente. C’è la positiva esperienza dei “corridoi umanitari” organizzati dalla Comunità di S.Egidio, ma i numeri sono ancora scarsi.
Aiutiamoli a casa loro
“O almeno non derubiamoli”, era l’ironico titolo di una bella inchiesta di Gianni Ballarini, apparsa nel numero di novembre di Millennium, supplemento mensile del “Fatto Quotidiano”. “Aiutiamoli a casa loro” è infatti lo slogan salvifico, salva coscienze, salva africani, salva europei, salva italiani, che sentiamo ripetere in questi mesi. La realtà è però un po’ diversa da questa invocazione. In Senegal, negli ultimi dieci anni, le coste si sono svuotate, racconta Ballarini. Questo perché si è ridotta dell’80 per cento la quantità di pesce che prima rimaneva nelle reti. Il milione e mezzo di sengalesi che vivono di pesca tornano ogni sera con le barche vuote, perché pescherecci europei, russi, cinesi, fanno incetta di tutto il pesce al largo. E questa situazione sta impoverendo le famiglie, spingendo molti giovani ad attraversare il deserto per poi imbarcarsi verso le nostre coste.
Un po’ più a Sud del Senegal c’è lo Zimbawe, l’ex Rhodesia, quinto Paese al mondo per la produzione di diamanti, che però non si trasformano in ricchezza per la popolazione, ma con un complicato incrocio di società off-shore di Dubai, India, Sudafrica e Olanda arrivano direttamente sui mercati occidentali. Passiamo alla Repubblica democratica del Congo, che ha anche una delle più grandi foreste pluviali del pianeta, devastate dal disboscamento. E tutte le concessioni dello sfruttamento del legno sono in mano a una società che ha sede in un paradiso fiscale, il Liechtenstein. Dalla Nigeria i Paesi occidentali prelevano il petrolio per rivenderle poi carburanti scadenti, quelli che non possono essere commerciati e usati negli Stati Uniti e nei Paesi Ue. In 14 Paesi africani c’è persino la servitu’ monetaria nei confronti del Tesoro francese. Ci sono poi i prestiti a caro prezzo concessi negli scorsi decenni dalla Banca mondiale all’Africa, e potremmo continuare.
Al netto di tutto questo, l’Occidente destina poche risorse alla cooperazione, e l’Italia non è certo in prima linea. Secondo l’Associazione di studi giuridici sull’immigrazione (Asgi), il nostro Paese avrebbe anzi distolto risorse della cooperazione per destinarle ai respingimenti e alla Libia. Vedremo se l’accusa sarà provata.
Ma c’è un altro aspetto da tenere presente, quando si dice “aiutiamoli a casa loro”. Lo ha ricordato di recente uno dei maggiori esperti di immigrazione, il professor Maurizio Ambrosini, sociologo dell’Università di Milano: ricerche internazionali dimostrano che i più poveri fra i poveri, quelli che guadagnano fino a 2 mila dollari l’anno, non emigrano, restano nel loro Paese. A partire sono coloro che hanno a disposizione da 2.000 a 10 mila dollari l’anno. Sopra questa soglia non si emigra più. I necessari aiuti alla crescita, non potranno avere un effetto immediato. E, comunque, dovranno essere orientati, per così dire, a “insegnare a pescare”, anziché continuare a rubare il pesce.
Senza migranti, non c’è futuro per l’Italia
L’anno scorso l’equivalente dell’Istat del Regno Unito, cioè l’Office of National Statistics, diffuse la notizia che la Gran Bretagna avrebbe raggiunto i 70 milioni di abitanti nel 2029, con un aumento di 4 milioni e 400 mila residenti rispetto ad oggi e questo in gran parte, Brexit o non Brexit, grazie al contributo degli immigrati e alla maggior prolificità delle donne straniere. Presi a Londra un giornale che ospitava un allarmato dibattito perché secondo le previsioni di due anni prima il traguardo dei 70 milioni doveva essere raggiunto già nel 2027.
Rimasi felicemente sbalordito a leggere queste notizie e quel dibattito per noi surreale. La crescita demografica è importante, perché incide felicemente sui consumi e quindi sull’economia, perché c’è bisogno di una popolazione giovane per pagare i contributi previdenziali. In Italia tutto questo non interessa. Politici e media parlano solo di paure e non sono in grado non dico di guardare in una prospettiva allungata, ma nemmeno dietro l’angolo.
E allora diamo un’occhiata veloce alle condizioni demografiche disgraziate in cui versiamo. Ha ormai più di 65 anni un italiano su quattro, e quindi già adesso e ancor più in prospettiva c’è un enorme bisogno di cura degli anziani, che certo – viste le condizioni gravissime della nostra spesa pubblica – non potrà essere soddisfatto con fortissimi investimenti nei servizi di assistenza. Da anni sono riprese le migrazioni, e se ne vanno i nostri giovani, non certo perché gli immigrati rubino loro posti di lavoro in agricoltura, nell’edilizia, nei ristoranti o nelle famiglie. Secondo l’Istat nel 2017 hanno lasciato la penisola 115 mila italiani, ma i calcoli del nostro Istituto di statistica tengono conto soltanto di chi si è cancellato dalla nostra anagrafe, e moltissimi sono gli espatriati che non lo fanno. Secondo l’Idos, che ha condotto delle ricerche specifiche sui registri consolari in Germania e nel Regno Unito, il numero va moltiplicato per due volte e mezzo: siamo dunque a quota 290 mila, un numero da anni ’50. La popolazione degli italiani all’estero è molto giovane, solo 7 su 100 hanno più di 65 anni, tre su dieci hanno la laurea, impoverendo così il capitale umano del nostro Paese. E dire che, come ci ricorda l’Ocse, per costruire un laureato l’Italia spende in media 164 mila euro, e 228 mila per un dottore di ricerca. E, per giunta, all’estero sono nati l’anno scorso 80 mila italiani: queste persone si stabilizzano fuori e fanno figli. Se la popolazione residente si è mantenuta attorno ai 60 milioni e mezzo di abitanti, perdendone solo alcune migliaia rispetto al 2016, questo è perché 150 mila stranieri hanno ottenuto nel frattempo la cittadinanza italiana (cosa che ha interessato 1 milione e mezzo di loro dall’inizio della nostra storia di arrivi) e perché le donne immigrate sono più prolifiche di quelle italiane, anche se adesso il loro tasso di fecondità è sceso a quota 1,97. Ma c’è un altro fenomeno: quello degli immigrati che non credono che ci sia più un futuro nel nostro Paese e lo lasciano: ci sono state 40.500 cancellazioni anagrafiche nel 2017. E ci sono anche stranieri naturalizzati italiani che adesso se ne vanno in un altro Paese d’Europa.
A questo quadro anagrafico, così allarmante, non si risponde con la propaganda miope e autarchica del tipo: diamo soltanto incentivi per aumentare le nascite. Ci vogliono questi, è poi necessaria una politica economica espansiva che faccia risalire la fiducia, ma è anche importante riaprire, moderatamente ma significativamente, il rubinetto dei decreti flussi. Ripeto ancora: è dal 2013 che non si può più entrare in Italia regolarmente, per lavoro dipendente. Le quote decise dal governo per il 2018, per poco più di 30 mila ingressi, sono riservate a lavoratori stagionali, a permessi di studio, alla conversione di altri permessi. E poi, per superare quel trucco dell’ingresso con permesso turistico, non c’è che una strada: sperimentare un permesso per ricerca di lavoro, della durata di un anno. Sarà poi necessaria una sanatoria, l’ottava della nostra storia, per il bacino di lavoro irregolare che inevitabilmente si è accumulato in tutti questi anni. Più gente alla luce del sole, più contributi pagati all’Inps, meno paure.
Le buone notizie
Ne scelgo due, avviandomi alla conclusione. La prima è che, fra gli immigrati non comunitari presenti nel nostro Paese, ben 6 su dieci (esattamente il 64,3 per cento) hanno un permesso di lungo soggiorno: il permesso permanente che si può chiedere solo dopo cinque anni di residenza regolare, dopo aver superato un test di italiano, e dimostrando alcuni requisiti di reddito e della casa che si abita. Questo è un importante segnale di integrazione: con quel permesso si è all’anticamera della cittadinanza. Fra l’altro era questo il requisito che uno dei genitori doveva avere perché il bambino nato in Italia fosse dichiarato italiano, secondo la proposta di riforma della cittadinanza abbandonata per paura al suo destino, lo scorso anno al Senato.
Il secondo dato, e anche questo lo estraggo dal Dossier statistico Immigrazione, è la grande quantità di imprese a gestione immigrata: sono 587 mila. A volte i numeri scivolano via, senza che ci si presti la dovuta attenzione. E allora proviamo a catturare questo con un’immagine, con un termine di confronto. Sono andato in rete a cercarmi la capienza di tutti gli stadi di calcio di Serie A. Il più grande è quello di Milano San Siro, con 80 mila posti, segue l’Olimpico, con 70 mila 600, e poi il San Paolo con circa 60 mila, il più piccolo è quello di Ferrara con poco più di 16 mila. Capienza totale: un numero praticamente eguale a quello delle imprese immigrate: 592.867 posti. E allora è come se, in una bella domenica di primavera, gli stadi italiani fossero gremiti in ogni ordine di posti e occupati esclusivamente da immigrati che hanno aperto un’impresa in Italia. Vedete che l’effetto è ben diverso.
Tra questi, va detto con soddisfazione, non mancano le donne. Come ad esempio Edith Elise Jaomazava, che importa e vende in Italia la prelibata vaniglia del Madagascar, e dà così lavoro a distanza a 300 agricoltori del suo Paese. O la romena Elena Cristina Toma, che dopo essersi fatta le ossa da Krizia, si è messa in proprio e ha creato una linea di calzature di lusso. Gran parte delle imprese, è vero, sono individuali, ma c’è anche chi come il siriano Radwan Khawatmi, che produce frigoriferi e dà lavoro a un centinaio di addetti, anche italiani., nostro ospite al FilmFest nel 2014. In ogni caso è un segnale importante, anche di integrazione, che il 10 per cento delle imprese italiane siano condotte da stranieri. Si pensi soltanto ai problemi di adattamento alla nostra infernale burocrazia, che hanno dovuto superare.
Bene, io ho finito. Vi ringrazio della vostra attenzione, e spero di avervi fornito qualche elemento, per un punto di vista diverso da quello che oggi appare largamente dominante.
* (Intervento al seminario organizzato dal Sindacato Cronisti Romani, dal titolo "L'informazione sui migranti, il fenomeno, i pregiudizi, l'integrazione, l'integrazione: il racconto del cronista",
Roma , 16 gennaio 2019)